Rosh ha Shanà: oltre i limiti delle parole

Rav Scialom Bahbout
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Ebraismo

Rosh ha Shanà: oltre i limiti delle parole

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Rav Scialom Bahbout
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rosh-ha-shanà-shofar-progetto-dreyfus“Beato il popolo che conosce la Teru’à, Signore, alla luce del tuo volto essi procederanno (Salmi 89,17)

La Torah non dice espressamente che il giorno di Rosh ha Shanà (il capodanno ebraico) si debba suonare lo Shofar: il primo giorno del settimo mese (Tishrè) “sarà per voi giorno di Teru’à” (Numeri 29: 1) e ancora “Ricordo di Teru’à, santa convocazione” (Levitico 23:24).

Secondo Nahmanide “ricordo di Teru’à significa che in quel giorno i figli d’Israele saranno ricordati davanti al Signore (vedi Numeri 10:10): “Suonerete con le trombe … e saranno per voi per ricordo di fronte al Signore Dio vostro”, e il ricordo avviene attraverso l’ascolto del suono dello Shofar nel giorno di Rosh ha Shanà.

Per alcuni precetti come Sukkà, Tefillin e Zizit il significato della mizvà è parte integrante della mizvà: “affinché ricordiate le mie mizvot (Zizit), “saranno come segno sul tuo braccio e come ricordo tra i tuoi occhi” (tefillin) e per la sukkà “Affinché le tue generazioni sappiano che nelle sukkot ho fatto dimorare i figli d’Israele”: la comprensione del motivo della mizvà rende possibile metterla in pratica in modo compiuto.

Sembra che ciò debba valere anche per il suono dello Shofar: chi suona e chi ascolta il suono deve concentrarsi per far sì che la Comunità di Israele venga ricordata di fronte al Signore.

Rashi (Levitico 23: 24) scrive che “Ricordo di Teru’à” si riferisce ai versi che si leggono prima del suono dello Shofar, ma Nahmanide obietta che la lettura dei versi non è stata stabilita dalla Torà ma dai Maestri, e tuttavia leggendoli si mette in pratica la mizvà di “ricordo di Teru’à”.

Perché il ricordo deve avvenire attraverso la Teru’à e non attraverso le parole come per la mizvà del ricordo dell’uscita dall’Egitto?

In effetti lo Shofar amplifica e rende più profonda la voce umana: Il suono dello Shofar è qualcosa di più di quello della voce dell’uomo. Quando nella promulgazione del Decalogo è scritto “il suono dello Shofar andava e si faceva sempre più forte”, si intende dire che il suono era così forte e profondo che poteva attraversare tutte le generazioni, in modo che la Torà potesse essere capita e approfondita sempre di più.

La parola è lo strumento del dialogo tra uomo e uomo e non di quello tra uomo e Dio: il paradosso della preghiera sta nel fatto che l’uomo usa uno strumento non completamente idoneo per esprimersi di fronte a Dio. La parola limita e non può rappresentare ciò che alberga nella parte più intima della mente e del cuore umano; anzi talvolta la parola falsa anche il pensiero. Mentre per il Signore vale quanto è scritto in Lechà Dodì  e che cioè “Osserva e ascolta furono detti con una sola emissione di voce”, questa capacità è impossibile da realizzare per l’uomo. Nella mente i nostri ricordi si affollano: ricordi del passato più remoto e più recente si presentano spesso confusi e se a volte riusciamo a fare ordine nella nostra mente, non riusciamo a fare altrettanto nel nostro cuore, dove i sentimenti si presentano confusi e senza un ordine preciso: solo lo Shofar può travalicare i confini tra una parola e l’altra e tra un pensiero e l’altro. L’ascolto del suono dello Shofar permette di dare una direzione ai nostri sentimenti e al nostro pensiero: lo Shofar ci permette di trovare la strada per trasmettere al Signore i nostri sentimenti. Questo il senso delle parole del verso “Poiché tu senti il suono dello Shofar e ascolti la Teru’à e non v’è nessuno che assomigli a te”.

Ma cosa è la Teru’à? Dato che nella Torà non viene spiegato esplicitamente cosa sia la Teru’à, il Talmud (Rosh hashanà 33b) dà alla Teru’à il significato di Yevavà (lamento) e lo deduce dal lamento della madre di Siserà, il generale che attaccò le tribù d Israele, guidate da Debora e Barak. E’ lecito chiedersi che cosa abbia a che fare il popolo d’Israele con la madre di Siserà, nemico di Israele. Rabbi Natan, l’autore romano dell’‘Arukh, va oltre e dice che si usa suonare cento suoni secondo il numero dei lamenti della madre di Siserà. Anche per Sarà Il midrash racconta che emise sei grandi grida quando venne a sapere che Abramo aveva sacrificato il figlio Isacco (Vayikrà rabbà XX, 2).

Impariamo da questa vicenda e dal modo in cu viene dedotta questa Halakhà che anche in una società in cui una persona viene educata in base a principi errati e idolatri, il dolore e il pianto di una madre hanno un valore universale. Rosh ha Shanà ricorda la creazione dell’Uomo e non di Israele ed ha quindi un significato universale. Il dolore e il pianto di una madre per un figlio non ha confini ha una portata umana universale: Sara e la madre di Siserà sono due madri che piangono il figlio pensato morto. Anche il suono dello Shofàr, che riecheggia i lamenti della madre di Siserà, non ha confini e viene dalle profondità del cuore umano.

Lo Shofàr tra origine dalle corna del montone che sostituì Isacco e che si erano impigliate tra i cespugli del Monte Morià. In tutta la ‘Akedà, la legatura, la storia del mancato sacrificio di Isacco, Abramo non parla e mantiene un rigoroso silenzio: solo all’inizio dice “eccomi” (si legga in proposito l’introduzione di Auerbach a Mimesis dedicata proprio alla storia della ’Akedà). Quando al culmine della ‘Akedà l’Angelo gli dice di non lanciare la mano contro il ragazzo”, ad Abramo mancano le parole. Ma quali parole poteva trovare Abramo in quel momento di tensione, all’apparire del montone impigliato tra i rovi del cespuglio? Abramo non è in grado di esprimere nessuna parola, ma vede il montone impigliato nelle corna, lo prende e lo sacrifica al posto del figlio. Lo sguardo di Abramo in quel momento passa attraverso le corna del montone e così si allenta la tensione di quel momento terribile.

Quel corno noi prendiamo e suoniamo per esprimer tutti i pensieri più tremendi che sono passati attraverso la mente di Abramo e che possono attraversare anche la nostra mente, ma che ci impongono di scegliere la vita e non la morte, anche se fatta in apparenza per “onorare” Dio.

Il suono dello Shofàr ci dà quindi questo insegnamento: quando le parole non sono più sufficienti, il suono tratto da un animale, per la sua semplicità e la sua naturalezza, ci permette di andare oltre i confini della parola.

Inoltre, ricordando che questa mizvà è l’unica che per essere applicata ha bisogno della concentrazione partecipante di due persone (chi suona e chi ascolta), ha la forza di unire due persone e far sì che tutta la Comunità diventi un “agudà akhat” un solo insieme di persone.

Con l’augurio che, ascoltando il suono dello Shofàr, ognuno di noi sia in grado di oltrepassare i confini delle parole e che sia in grado di unirsi anche con il suo prossimo.

Shanà tovà, ketivà vachatimà tovà

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