16 ottobre 1943, giorno della razzia nazista dell’ex ghetto ebraico di Roma

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David Spagnoletto
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Storia

16 ottobre 1943, giorno della razzia nazista dell’ex ghetto ebraico di Roma

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David Spagnoletto

Se il dolore potesse essere identificato con una data, quella per gli ebrei romani sarebbe il 16 ottobre 1943. Una data che da allora è rimasta nella memoria collettiva di una Comunità che non vuole o non può dimenticare il dolore di quella mattina, quando più di mille persone dell’ex ghetto vennero rastrellate dai nazisti, dando inizio a un calvario che poi diventerà l’inferno.

Era l’alba di sabato, poche ore dopo la cena del venerdì che vede(va) riunita ogni famiglia ebraica per continuare tradizioni e liturgie che cementano da secoli il popolo d’Israele. Non un giorno qualsiasi, ma quello più sacro per gli ebrei: lo Shabbat.

I comandanti delle SS avevano dato ordine ai loro aguzzini di non sbagliare, la razzia non poteva essere sommaria e tutto si sarebbe dovuto svolgere in breve tempo. La scientificità dell’operazione mischiata alla barbara ferocia avevano fatto scattare tutto proprio quel giorno, per strappare dalle proprie case più gente possibile.

Senza distinzioni: uomini, donne, bambini, anziani. Non è una litania per scadenzare il dolore, ma un modo per ricordare legami spezzati, affetti non più manifestabili per famiglie ebraiche intere, che vennero individuate grazie agli elenchi stilati cinque anni prima delle leggi razziali. Gli elenchi per il popolo ebraico sono come fantasmi, prima o poi ritornano. E quando lo fanno, la loro potenza è dirompente.

Era il 16 ottobre 1943: giorno della deportazione degli ebrei romani. Un mese prima l’Italia aveva firmato l’armistizio e pochi giorno dopo la Germania nazista aveva occupato Roma, tenuta sotto il comando del tenente colonnello delle SS, Herbert Kappler, a cui Heinrich Himmler, teorico della “soluzione finale” aveva fatto recapitare questo messaggio:

“I recenti avvenimenti italiani impongono una immediata soluzione del problema ebraico nei territori recentemente occupati dalle forze armate del Reich”.

Passarono pochi giorni e la personificazione del male fece pervenire un telegramma segreto e strettamente riservato al colonnello Kappler in cui vennero spazzate via le possibili ambiguità del messaggio precedente:

“Tutti gli ebrei, senza distinzione di nazionalità, età, sesso e condizione, dovranno essere trasferiti in Germania ed ivi liquidati. Il successo dell’impresa dovrà essere assicurato mediante azione di sorpresa”.

La sorte per gli ebrei romani era segnata. Non c’era più scampo, anche se i nazisti avevano fatto credere il contrario con il baratto: la salvezza in cambio di 50 kg d’oro. I 50 kg d’oro vennero racimolati dalla Comunità ebraica e consegnati alle SS per trovare la salvezza promessa e mai divenuta realtà.

Era il 28 settembre 1943: 18 giorni prima della deportazione degli ebrei romani. La disumanità nazista aveva già deciso la deportazione degli ebrei romani. Come se non bastasse, venne dato loro l’illusione dell’incolumità che iniziò a vacillare quando Kappler diede l’ordine di saccheggiare le due biblioteche della Comunità ebraica e del Collegio rabbinico, strappando materiale di inestimabile valore culturale ai legittimi proprietari per caricarli su due vagoni ferroviari diretti in Germania. Era il 14 ottobre 1943: 2 giorni prima della deportazione degli ebrei romani.

Allo scoccare delle 5,30 iniziò il rastrellamento dell’ex ghetto ebraico di Roma. 1024 persone vennero strappate dalle proprie case e messe nei camion militari coperti da teloni e trasportati provvisoriamente presso il Collegio Militare di Palazzo Salviati in via della Lungara. Era il 16 ottobre 1943: il giorno della deportazione degli ebrei romani.

La prima tappa dell’Inferno. In seguito i deportati furono trasferiti alla stazione ferroviaria Tiburtina e caricati su un convoglio composto da 18 carri bestiame. Era la seconda tappa dell’Inferno.

Il 16 ottobre 1943 non è solamente una data per gli ebrei romani; è quell’insieme di sentimenti, di amore, di angoscia, di paura, di dolore, entrato a far parte del DNA della Comunità ebraica di Roma.

È una data che da allora viene tramandata alle nuove generazioni come simbolo di un antisemitismo cieco e feroce.

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