Ahed Tamimi e il suo clan: anamnesi famigliare

La storia di Ahed Tamimi e della sua famiglia è un chiaro esempio di come funziona la propaganda palestinese contro Israele

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Niram Ferretti
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Debunking, Dossier, Medio Oriente, pregiudizio antisraeliano, Terrorismo

Ahed Tamimi e il suo clan: anamnesi famigliare

La storia di Ahed Tamimi e della sua famiglia è un chiaro esempio di come funziona la propaganda palestinese contro Israele

Una nuova icona “resistenzialista” ne scaccia un’altra nel pantheon della fervida setta palestinista che in Occidente agglomera numerosi adepti, di destra e di sinistra, anche se, a dire il vero, è a sinistra che da decenni batte più intensamente il cuore per la “causa palestinese”, sia in forma radicale sia in forma salottiera. Dismesso in fretta Marwan Barghouti che ebbe un momento fugace di gloria l’anno scorso, quando, per il pluriomicida arabo incarcerato a vita in Israele, si mobilitarono comitati e giornali amici come il New York Times, dipingendo l’incallito pianificatore di omicidi in un emulo di Ghandi e Nelson Mandela, ora è il turno della diciassettenne Ahed Tamimi. Capelli biondi crespi, pelle chiara, gradevole d’aspetto, la giovane Ahed ha un allure ben maggiore dell’irsuto e pingue ergastolano, colto in fallo mentre divorava uno snack in cella durante lo sciopero della fame in solidarietà con i terroristi e criminali palestinesi detenuti nelle carceri israeliane.

Ahed Tamimi è stata arrestata a dicembre dopo un incidente filmato in cui, insieme alla cugina maggiorenne Nur prende a schiaffi e a pugni due soldati israeliani di stanza a Nabi Salih, un piccolo villaggio a nordest di Ramallah. Qui, dal 2009 al 2016 sono state inscenate (e vedremo quanto non vi sia verbo più preciso in questo caso), proteste con cadenza settimanale contro i soldati israeliani a salvaguardia dell’insediamento di Halamish edificato negli anni ‘70. Il contenzioso riguarda il pozzo naturale di Ein al Kis e il suo status. Per gli abitanti del villaggio esso apparterrebbe a loro e non agli abitanti dell’insediamento che vi avevano costruito intorno strutture per attività ricreazionali.

Nel 2013 l’Alta Corte israeliana ha dichiarato il pozzo sito di interesse archeologico, intimando ai residenti di Halamish di smantellare le strutture ma negando che esso sia da considerarsi proprietà privata palestinese. Nonostante ciò le proteste sono continuate. Nabi Salih non poteva rinunciare al suo status consolidato con grande successo di simbolo dell’”occupazione” israeliana e dei suoi presunti soprusi.

Qui si sono dati e si danno convegno numerosi gruppi per i “diritti umani” con macchine fotografiche e telecamere al fine di mostrare al mondo il volto brutale di Israele a confronto con quello sano della pacifica resistenza palestinese fatta di lanci di pietre e sassi. E’ una delle mete preferite per gli ebrei di sinistra della diaspora, prevalentemente americani, e per gli israeliani impiegati nelle ONG finanziate dai governi europei. Nabi Salih è anche il feudo della famiglia Tamimi, il clan originario dall’Arabia Saudita, che ha saputo creare grazie allo spirito intraprendente del capo clan Bassem Tamini, una vera e propria piccola produzione di filmati votata a documentare le gesta della “resistenza”, con tanto di sigla, la Tamimi Press. Ahed ne è diventata presto la star, debuttando nel 2012, a dodici anni, quando apparve piangente in un filmato mentre veniva tenuta per le braccia da un soldato dell’IDF mentre la madre Narimen veniva arrestata. Abu Mazen apprezzò e in seguito la invitò a Ramallah insieme alla madre nel frattempo rilasciata. Ma fu Erdogan a riconoscerne pienamente il talento, quando, dopo un altro video della Tamimi Press, sempre del 2012, in cui la piccola Ahed appare con il pugno alzato, bionda e fiera davanti a un soldato israeliano, la invitò in Turchia dove venne premiata per il coraggio dimostrato. I bambini sono perfetta manovalanza per genitori astuti i quali sanno bene quale effetto dirompente provocheranno le loro immagini con le braccia e i pugnetti alzati davanti ai militari, nei cuori ardenti dei paladini della giustizia e del bene.

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Ahed, nel 2012 è già una icona anche se non è ancora stata scoperta pienamente dal pubblico occidentale. Bisognerà attendere tempi più recenti, il 2015, quando un soldato israeliano reagisce al lancio di pietre del di lei fratello anch’esso minorenne. L’immagine del soldato con il passamontagna squarciato il quale tiene serrato in una presa il ragazzino con un braccio ingessato (mentre quello libero non gli impediva di lanciare pietre), farà il giro del mondo diventando simbolo della violenza israeliana sui poveri “bambini”. Ma bisognerà aspettare i giorni nostri, e l’arresto di Ahed per la consacrazione definitiva di quest’ultima.

La campagna per “salvare” Ahed organizzata dai Tamimi diventa virale. Si muovono Amnesty International, l’Unicef, Newsweek le dedica un articolo in cui l’apologia sfuma nell’agiografia, mentre qui in Italia il collettivo propalestinese chiamato NENA (Near East News Agency) lancia una petizione al presidente Mattarella. Nella petizione, Israele viene descritto, adottando lo stile criminalizzante di un perfetto libello antisemita, come uno stato mostro che arresta nottetempo bambini palestinesi nelle loro case per poi detenerli in celle di isolamento privati di ogni diritto. Mancano solo le accuse di frustate e di privazione di sonno e cibo per completare il tutto.  Ahed vi appare come la vittima indomita, ormai epicizzata, che si batte contro il Moloch israeliano. Alla petizione appongono le loro firme alcuni nomi glamour del cinema e della “letteratura” italiana, accomunati da solidarietà famigliari, da Sergio Castellito, a Margaret Mazzantini, da Giovanni Veronesi a suo fratello Sandro, dalla pasionaria Asia Argento a sua mamma Daria Nicolodi. Tutti uniti per salvare Ahed.

La realtà tuttavia respinge questa fiction, malgrado la Tamimi Press e la presentazione che il patriarca Bassem fa di sé come uomo di pace e resistenza arrestato ingiustamente dodici volte, e dal quale vengono infallibilmente portati quando si recano a Nabi Salih i bravi ebrei non israeliani e anche i non ebrei, che vogliono apprendere dalle sue labbra come ci si batte, senza violenza, contro abusi e soprusi.

Tamimi è uomo scaltro, sa assai bene che accreditarsi come “resistente”, perorante dei diritti dei più deboli, conquista immediatamente le platee occidentali, ormai aduse a cinquant’anni di indefessa propaganda anti-israeliana. E infatti, l’Europa nel 2011, quando viene arrestato, lo proclama “Difensore dei diritti umani”, mentre Amnesty International lo incorona, “prigioniero di coscienza”, definizione inventata dal fondatore dell’organizzazione, Peter Benenson e applicata anche a Mordechai Vanunu, il tecnico nucleare israeliano e attivista per la pace che mise a repentaglio la sicurezza di Israele rivelando, nel 1986, segreti sul programma nucleare dello Stato ebraico alla stampa inglese. Per Amnesty International, un eroe, come lo sarebbero stati sicuramente se fosse esistita all’epoca, anche Ethel e Julius Rosenberg, uomini e donne ingiustamente detenuti per le loro idee. Per Bassam Tamimi il problema non è tanto quello del pozzo naturale di Ein al Kis, e di chi sia o non sia, ma è Israele stesso, “un grande insediamento”, come ebbe a definirlo in una intervista all’amichevole Newsweek. D’altronde sembra pensarla alla stesso modo la zia di Ahed, Ahalam Tamimi, pianificatrice della strage alla Pizzeria Sbarro a Gerusalemme nel 2001 in cui morirono quindici persone, tra cui sei bambini e che provocò centotrenta feriti. Ahed è una gloria familiare. Rilasciata nel 2011 durante lo scambio di prigionieri palestinesi che Israele concordò con Hamas per riavere il caporale Gilad Shalit, Ahlam Tamimi rilasciò una intervista in cui, serafica dichiarava che si rammaricava per non essere riuscita a uccidere molte più persone. Prima del rilascio ebbe il tempo di sposarsi con Nizar Tamimi, nipote di Bassem e responsabile dell’omicidio a sangue freddo di un ragazzo ebreo di nome Chaim Mizrahi, la cui unica colpa era quella di essere ebreo e di fidarsi di lui.

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Al quadro famigliare non può mancare la madre di Ahed, Narimen Tamimi, resistente pacifica anche lei. Si distinse in modo particolare nel periodo della cosiddetta “Intifada dei coltelli” dal 2015 al 2016 per avere glorificato via Facebook i cosiddetti martiri. Nell’agosto del 2015 postò un grafico che andava assai di moda in quel momento sui social network. Si trattava dello schema di un corpo umano in cui venivano mostrati corredati dai disegni di coltelli gli organi vitali da colpire. Sempre in agosto, postava un’immagine in cui appariva la sorella Ahlam sorridente insieme ai volti di altre tre terroriste palestinesi, con la scritta, “E’ la faccia di una terrorista? No, non lo è”. Si trattava, in questo caso, di donne responsabili della morte di 55 israeliani, tra cui 21 bambini e del ferimento di 300 persone. Non contenta, nel 2016, postava un commento in cui onorava il terrorista palestinese che aveva trucidato nella sua camera da letto la tredicenne Hallel Yaffa Ariel, nell’insediamento di Kiryat Arba. Sì, Israele è un “grande insediamento”, da rimuovere, come si rimuovono, quando si può, gli israeliani, uomini, donne e bambini che ne fanno parte.

Questo è il clan Tamimi, questo è il contesto socio-culturale a cui appartiene e in cui è cresciuta Ahed Tamimi, trasformata dalla stampa occidentale in eroina, per la quale si raccolgono firme, si perora il rilascio. Si tratta infondo sempre della stessa desolante storia, da quando il lord of terror Yasser Arafat veniva ricevuto con i tappeti rossi ovunque andasse fuori dal Medioriente, e qui in Italia Bettino Craxi lo paragonava a Giuseppe Mazzini. E’ la storia che celebra come “eroi” e “resistenti”, assassini e terroristi o, nel caso dei Tamimi padre, madre e figli, loro estimatori e fiancheggiatori. E’ la storia della nostra rovinosa débâcle morale.

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