Il nuovo governo di Israele e le sfide che lo attendono

Ugo Volli
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Israele

Il nuovo governo di Israele e le sfide che lo attendono

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Ugo Volli
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I sistemi politici democratici hanno due compiti che spesso non è facile conciliare. Da un lato devono dare alla società un governo capace di fare le scelte necessarie, che nel caso di uno stato insidiato da terrorismo e nemici esterni minacciosi com’è Israele, sono particolarmente delicate. Dall’altro lato i sistemi politici devono dare rappresentanza alle diverse voci e ai diversi legittimi interessi di una società. E anche questo compito non è facile in una socità così plurale sul piano culturale, religioso, politico, economico come quella israeliana. Di fatto il sistema elettorale in Israele, col proporzionale puro e la bassa soglia di sbarramento, tende a privilegiare la seconda esigenza e l’organizzazione del governo, con un forte accento sul primo ministro tende a favorire la governabilità, bilanciata però da poteri anche informali che hanno accumulato settori dello stato come la magistratura e gli alti comandi militari, che si riproducono per cooptazione e rispondono poco alle scelte dell’elettorato.

Questa difficoltà del sistema politico israeliano ha il suo punto critico nella formazione del governo. Concluse le elezioni con un risultato che è una vittoria di Netanyahu proprio perché gli attacchi concentrici contro di lui (in buona parte provenienti dai poteri indipendenti dall’elettorato) non l’hanno rovesciato, il sistema politico israeliano si trova di fronte al compito sempre faticoso della costituzione del governo. Sulla carta la situazione è molto chiara. Tolti i dieci parlamentari dei partiti arabi i quali, essendo violentemente antisionisti, si escludono da sé dalla prospettiva del Governo di Israele, la Knesset si divide fra i 65 parlamentari del centro destra, di cui 35 del Likud guidato da Netanyahu, e i 45 del centro sinistra. La maggioranza parlamentare è di 61 voti sui 120 deputati. E’ chiaro che l’elettorato ha votato per un governo di centro destra guidato dal Likud e cioè da Netanyahu. Ma se si sottrae alla maggioranza uno dei partiti minori che la compongono, essa non è più in grado di esprimere un governo. Il risultato è che i partiti minori chiedono più potere della loro quota di voti e che le loro richiesta sono naturalmente in contrasto fra loro. In particolare, almeno nella prima fase della trattativa, vi è uno scontro fra Liberman, che vorrebbe di nuovo quel ministero della difesa che aveva abbandonato a novembre scorso provocando la fine della legislatura e vorrebbe di nuovo quella legge sulla leva degli studenti delle scuole religiose, che non piace affatto ai partiti religiosi. I quali, avendo avuto un buon risultato, pretendono a loro volta ministeri di peso, che sono ambiti anche da esponenti del Likud, che ha avuto un risultato ottimo e insperato.

Il risultato di queste tensioni sarà probabilmente uno stallo che durerà per tutto il mese e mezzo che le le leggi consentono per la formazione del governo e una partita di poker politico spericolato. Ma questo è un gioco che a noi italiani fa molta meno impressione di quale che accada con gli anglosassoni abituati al bipartitismo. E del resto Netanyahu, ormai al quinto mandato, ha un’esperienza e un’abilità politica che rende assai probabile un superamento delle difficoltà. Anche perché i risultati delle elezioni se un partito uscisse dalla maggioranza avrebbe il potere di azzopparla, ma non di far prevalere lo schieramento opposto e il risultato di una paralisi prolungata sarebbero nuove elezioni che certamente sarebbero pericolose per tutti i vincitori.

Bisogna dunque prevedere che prima o poi si realizzerà un nuovo governo in continuità con quello uscente, il quale si troverà ad affrontare tutte le sfide che incombono su Israele: il tentativo dell’Iran di accumulare un potenziale offensivo in Siria e in Libano capace di impegnare Israele, l’ambiguità russa su questo teatro, la guerriglia diplomatica di Abbas, quella dei razzi e delle manifestazioni a Gaza di Hamas, quella dei coltelli e degli investimenti automobilistici dei giovani arabi sostenuti e incitati da entrambi. Ma soprattutto il difficile e promettente avvicinamento ai paesi sunniti non dominati dalla Fratellanza Musulmana (esclusi dunque Turchia e Qatar) e il rapporto con l’America di Trump. Il punto più delicato che il nuovo governo israeliano dovrà affrontare è questo. Sarebbe sciocco solo temporeggiare e sperare che l’iniziativa di pace di Trump si sgonfi. Non solo per la gratitudine che Israele deve a questa amministrazione, ma per la sincera amicizia che essa ha dimostrato e per il coraggio che Trump ha di pensare, come dicono gli americani “fuori dalla scatola”. E’ possibile che la trattativa ormai antica fra Israele e l’Autorità Palestinese conosca una svolta nei prossimi anni, magari in concomitanza con un ricambio generazionale che dovrà presto avvenire a Ramallah. Questa sarà la sfida vera del nuovo governo e di chi lo dirigerà. Se, come ha voluto chiaramente l’elettorato israeliano, il responsabile delle grandi scelte dello stato ebraico sarà ancora Netanyahu, possiamo essere sicuri che tale sfida sarà affrontata con l’intelligenza, l’apertura mentale ma anche la cura della sicurezza e del futuro di Israele che hanno caratterizzato tutta la vita politica di Netanyahu

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