Quale sicurezza per gli ebrei del secolo XXI

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Piero Di Nepi
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Storia

Quale sicurezza per gli ebrei del secolo XXI

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Piero Di Nepi

Raphael Lemkin morì a New York il 28 agosto del 1959: non invecchiò, era nato nel 1900 in un piccolo villaggio della Bielorussia. Poté così risparmiarsi la condanna a rivivere un passato che sperava non ripetibile. Lemkin era il giurista ebreo che aveva “inventato” il termine genocidio già alcuni anni prima della Seconda Guerra Mondiale, occupandosi -per conto della Società delle Nazioni- del massacro degli Armeni, e poi delle stragi di cristiani avvenute in Irak nel 1933. Al funerale di Raphael Lemkin parteciparono 7 (sette) persone. A lui il moderno diritto internazionale deve la “Convenzione per la prevenzione e repressione del delitto di genocidio” adottata dall’Assemblea Generale dell’ONU il 9 dicembre 1948 e successivamente entrata in vigore dal 12 gennaio 1951.
Lemkin era riuscito a rifugiarsi in Svezia nel 1940 e poi ad ottenere un visto per gli Stati Uniti. Quarantanove dei suoi congiunti, intrappolati nell’Europa occupata dai nazisti, furono uccisi.

Anche Alexander Haim Pekelis era un giurista ed era ebreo. Stretto collaboratore del Jewish American Congress riuscì a far inserire Nell’agenda di lavoro dell’ONU appena nata (era il 1945) il progetto di una “Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo”, approvata all’unanimità il giorno successivo allo straordinario documento sul delitto di genocidio, e cioè il 10 dicembre 1948. Pekelis era nato a Odessa nel 1902, e morì in un incidente aereo avvenuto presso l’aeroporto di Shannon in Irlanda nel 1946. Non fece in tempo a vedere il successo del proprio lavoro, ma aveva potuto “assaggiare” personalmente le leggi razziali italiane del 1938, che in un batter d’occhio lo privarono della cattedra nella Facoltà di Giurisprudenza dell’Università degli Studi di Roma.

norimberga

Tra le buone intenzioni periodicamente formulate al Palazzo di Vetro di New York, la “Dichiarazione” è una delle disattese. Non era certo un caso che fossero proprio due ebrei a proporre per la prevenzione del nuovo flagello, il massacro sistematico di minoranze indifese, la via del diritto internazionale garantito –si presumeva per sempre- dall’ONU e dalle grandi potenze vincitrici nel 1945. Ma come si vide al processo di Norimberga, la vocazione allo sterminio pareva purtroppo ormai entrata nella sfera dei comportamenti possibili di ogni potere politico assoluto. I nazisti hanno dimostrato che non è possibile fermare un genocidio ben programmato. Bastano pochi mesi di lavoro organizzativo: e quando bussano alla tua porta, è già tardi. Occorrerebbe la stessa organizzazione, che per definizione è una struttura di attacco. Non c’è modo di difendersi dall’interno di uno Stato, di fronte alla volontà genocidaria delle autorità o di gruppi armati che delle autorità abbiano l’appoggio. Non ci sono Stati dentro gli Stati, non vengono tollerati: solo l’intervento esterno di altre entità statuali potrà salvare almeno in parte le vittime designate.

Nel 1994, in Ruanda, per fermare la strage ben pianificata di almeno 800.000 persone dell’etnia Tutsi sarebbe stato sufficiente l’invio di 10.000 uomini dei reparti speciali di un qualsiasi paese tecnologicamente avanzato, con la capacità politica e logistica di muoversi in piena indipendenza. Nei primi anni dopo la fine della Seconda Guerra Mondiale la Shoah neppure si chiamava “Olocausto”: più semplicemente, era ancora non esistente sull’orizzonte degli eventi storici, in quanto contabilizzata a Norimberga nel grande e terribile repertorio dei crimini contro l’umanità commessi dai nazisti. Lemkin fece in tempo a vedere la nascita dello Stato di Israele e le due guerre che Israele dovette combattere contro i primi tentativi di eliminazione. Forse anche lui aveva imparato a nutrire scarsa fiducia nei poteri terapeutici delle dichiarazioni d’intenti e di principio, e a non fidarsi di certe polizze collettive d’assicurazione. La polizza a garanzia della propria esistenza fisica, gli ebrei l’avevano vista materializzarsi tra il Mar Mediterraneo e i deserti d’Arabia.

monte hermon

Alla fine del 1949, dunque, si stabilizzò in una precarietà definitiva lo Stato nel quale presumevano di poter trovare un rifugio sicuro, e senza intralci burocratici. La contestata “Legge del Ritorno” apponeva un firma incancellabile in calce al contratto d’assicurazione. La bandiera con la Stella di David sventolava dal Monte Hermon al Mar Rosso e non sarebbe mai più stata ammainata, come scrisse Leon Uris chiudendo il suo “Exodus”. Grande best seller, celebre film. Ma la realtà corrispondeva davvero alla sceneggiatura? La “stella” rappresenta in realtà lo scudo a sei punte –lo Scudo di David– degli antichi guerrieri ebrei. Il rischio continuo della guerra sembra tuttora un prezzo accettabile. Anche perché, come dicono in Israele, “en brerà”: non c’è scelta. Traumatizzati forse per sempre dalla Shoah, gli ebrei tendono a non fidarsi più della propria tradizionale dialettica, secondo la quale una scelta diversa risulta sempre possibile. Il problema è che se per disgrazia vincono i nazisti, anche quelli “nuovi” di oggi, la scelta che ti propongono è soltanto una: morire, e senza tante storie. Nelle prigioni della Giunta militare argentina, tra il 1975 e il 1982, il numero dei ragazzi e delle ragazze strappati a famiglie ebraiche sembra fosse percentualmente molto elevato. Tanti ebrei argentini, negli anni dei militari, si rifugiarono in Israele: dove furono accolti in pochi giorni, se non poche ore. Il tempo del volo che li trasferiva a Tel Aviv. In quegli stessi anni la Russia sovietica lasciò partire oltre un milione di ebrei.

Oggi,viste le condizioni del Medio Oriente e certe dinamiche della grande politica internazionale, gli ebrei – e insieme con gli ebrei il popolo rom — certamente guardano avanti, ma sanno bene che non basterà la retorica della solidarietà per chiudere l’abisso che si spalancò in Polonia nel 1940.

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