Il governo israeliano che manca

Ugo Volli
Ugo Volli
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Israele

Il governo israeliano che manca

Israele
Ugo Volli
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Dalle elezioni in Israele è passato oltre un mese e mezzo, il verdetto degli elettori è stato molto chiaramente a favore del centrodestra, tanto che nessuno ha messo in discussione che Netanyahu sarebbe stato di nuovo primo ministro. Ma il governo non c’è ancora, e il 29 scade il termine ultimo di legge per formarlo, dopo che Netanyahu ha già ottenuto e in buona parte speso la sola proroga consentita. Bisogna chiedersene perché.

Il primo fattore è la frammentazione dell’elettorato. Il Likud ha avuto una delle migliori vittorie degli ultimi decenni, ma con 36 seggi su 120 della Knesset è sotto il 30%, ben lontano dalla maggioranza necessaria. Per formare il governo occorrono altri quattro partiti, il Kulanu che è una formazione liberista che ha come leader un ex del Likud che potrebbe anche rientraci presto, Moshe Kahlon; due partiti che esprimono il mondo religioso tradizionale, uno sefardita e uno askenazita; la formazione che ha unificato la maggior parte del mondo dei nazionalisti religiosi (ma non tutti, perché i vecchi leader Bennet e Shaked hanno tentato senza successo di costituirne un altro) e infine il partito di Liberman, espressione soprattutto degli immigrati dall’ex unione sovietica, nazionalista ma – diciamo in termini europei – decisamente anticlericale.. Ciascuno di questi gruppi ha fra il 5 e il 10 % dei voti, hanno preso l’impegno elettorale di stare assieme, ma ciascuno ha le sue esigenze, sia sul piano un po’ volgare ma inevitabile in democrazia,  del piazzare i loro esponenti al governo e dell’ottenere influenza governativa sui temi che interessano i loro elettori, sia su quello delle grande scelte politiche.

In particolare c’è contrasto fra i partiti religiosi, che tentano di mantenere per i giovani studenti che frequentano le scuole talmudiche l’esenzione dal servizio militare di cui godono e Liberman che invece punta a obbligare anch’essi a servire come tutti, forte anche di alcune sentenze della corte suprema. Un altro tema divisivo è quello del conflitto sempre più aperto fra i partiti  che vogliono condurre una politica rigorosa a difesa delle forze armate e degli insediamenti e la corte suprema che si è ritagliata la possibilità concreta se non il diritto di intromettersi in nome della giustizia in scelte che sono chiaramente politiche. C’è chi vuole una legge per assicurare che la Knesset abbia la possibilità di annullare con un voto qualificato le sentenze con cui la corte suprema annullasse delle leggi in quanto “anticostituzionali” (ma Israele non ha una costituzione scritta) e chi non la vuole.In questo dibattito entra anche quella che molti nel Likud sentono come una persecuzione giudiziaria ai danni di Netanyahu, che ha colpito prima altri ministri e leader politici colpevoli di essere contrari alle scelte dei giudici supremi, magari stabilendo una sorta di immunità giudiziaria per i deputati come quella che per molti decenni, e quelli che sono contrari.

Bisogna aggiungere che da sempre in Israele la politica è molto personalizzata, alquanto teatrale e rissosa e che la liturgia postelettorale è sempre andata più o meno in questo modo, con una drammatizzazione dei conflitti nella maggioranza che poi si risolve all’ultimo momento con compromessi che si potevano magari raggiungere anche prima, ma si giustificano proprio alla luce dell’”emergenza” dei tempi agli sgoccioli.

Questa volta però l’emergenza c’è davvero. Nessun altro se non questa maggioranza può formare il governo e ci sono alcune scadenze politicamente importantissime che si avvicinano velocemente. La prima è la crisi dell’Iran, che potrebbe indurre gli ayatollah a provocare un’aggressione a Israele per ritrovare una solidarietà interna e internazionale intorno al loro governo, che è in gravissima difficoltà economica e politica. La seconda è il piano di pace di Trump, che verrà presentato fra una decina di giorni e richiederà risposte da Israele e naturalmente da un governo pienamente legittimato e non da quello in proroga che regge il paese oggi. La terza e la quarta, connesse alla prima, sono le crisi con Gaza e con la Siria, che attualmente sono in un momento di calma, ma potrebbero riesplodere senza preavviso. Ricordiamo che la Jihad islamica di Gaza, secondo movimento terrorista della Striscia subito dopo Hamas e satellite diretto dell’Iran, ha “previsto” una guerra per l’estate. Infine vi è la vicenda di Netanyahu e in generale il contrasto fra Knesset e corte suprema, che si attiva spesso con contrasti minori ma di alto valore simbolico, come quando i giudici supremi hanno annullato la proibizione del Primo Ministro e autorizzato la provocatoria manifestazione di sudditi dell’Autorità Palestinese in Israele per ricordare la “Naqbah”, cioè la fallita guerra di aggressione araba, proprio il giorno della festa dell’Indipendenza.

Insomma, Israele non può permettersi altri mesi di governo e parlamento in proroga, di campagna elettorale, di incertezza. Chi li provocasse sarebbe certamente punito dall’elettorato. Per questo è probabile che il governo si faccia, magari con la liturgia di una maratona all’ultimo minuto.

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