Che cosa rappresentano quelle bandiere palestinesi in Piazza Rabin

La manifestazione contro la legge dello stato nazione unisce la sinistra israeliana e gli arabi di Israele.

Ugo Volli
Ugo Volli
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Israele

Che cosa rappresentano quelle bandiere palestinesi in Piazza Rabin

La manifestazione contro la legge dello stato nazione unisce la sinistra israeliana e gli arabi di Israele.

Israele
Ugo Volli
Ugo Volli

Si è tenuta un paio di giorni in Piazza Rabin a Tel Aviv, la sede più importante per i raduni politici di massa in Israele, una seconda manifestazione dopo quella dei drusi della settimana scorsa, contro la legge che proclama Israele Stato nazionale del popolo ebraico. Meno seguita della prima, ma comunque con un pubblico intorno alle trentamila persone, questo incontro era organizzato dalle organizzazioni degli arabi israeliani e naturalmente appoggiata dall’estrema sinistra. Il fatto stesso che si sia svolta pacificamente e senza inciampi di sorta dimostra la falsità della tesi fondamentale che vi si sosteneva, quella dell’incipiente o già realizzata fine della democrazia israeliana, della perdita di diritti per gli arabi, dell’apartheid e di tutta la propaganda antisionista che si è diffusa a piene mani in Europa nelle ultime settimane, a proposito di questa legge, legittima e non dissimile da analoghe clausole costituzionali in molti paesi occidentali. E insieme ne dimostra la necessità. Vediamo il perché.

La manifestazione, come dicevo, è stata organizzata dallo Higher Arab Monitoring Committee, un’organizzazione di raccolta degli arabi israeliani e vi hanno aderito tutte le Ong e i partitini di estrema sinistra; gli oratori principali erano il leader arabo Mohammad Barakeh, la professoressa di sociologia alla Hebrew University Eva Illouz, il deputato arabo Ayman Odeh l’editore di Haaretz Amos Schocken: una convergenza fra estrema sinistra intellettuale ebraica e dirigenti politici arabi che non è certo nuova. Quel che è una novità e che ha colpito molto i commentatori è stato il fiorire di bandiere palestinesi fra il pubblico e lo slogan più importante scandito durante la manifestazione: “Con lo spirito e il sangue ti liberermo o Palestina”.

Mentre da Gaza avevano appena smesso di lanciare razzi, palloni incendiari e bombe molotov sul territorio israeliano, a distanza di una settimana dall’ultimo sanguinoso attentato palestinista, arabi israeliani e estrema sinistra si ritrovavano a negare l’identità ebraica di Israele in favore non si capisce bene se di due stati o di uno stato binazionale, ma certamente della “liberazione della Palestina”. Quella stessa bandiera che durante gli scontri a Gaza è stata spesso esposta insieme alla svastica, veniva esposta nel “tempio della democrazia israeliana” come segno del progetto politico alternativo all’idea fondamentale del sionismo, cioè lo stato nazionale del popolo ebraico.

Difficile meravigliarsi che un progetto del genere sia adottato dagli arabi israeliani, perché fa parte della politica del doppio binario tradizionale per i palestinisti: Arafat parlava in inglese di pace e in arabo esaltava il terrorismo; Abbas rimprovera Trump per aver distrutto le prospettive di un accordo e finanzia i terroristi; gli arabi israeliani usano i loro privilegi di deputati alla Knesset, con tanto di immunità parlamentare e di supporto logistico e finanziario per andare in giro per il mondo a denunciare l’oppressione sionista, se non a contrabbandare materiali proibiti nelle prigioni e a partecipare alle flottiglie per Gaza; i propagandisti palestinisti vogliono uno stato binazionale e senza identità nei territori dello stato di Israele e allo stesso tempo rivendicano uno stato nazionale loro sullo stesso territorio, assicurando senza alcuna vergogna di volerlo judenrein, cioè senza nessuna presenza ebraica collettiva e neppure individuale.

Più preoccupante è che le bandiere e gli slogan palestinisti non rappresentino una linea rossa per la sinistra israeliana, da tempo totalmente isolata dal paese e priva di solidarietà col popolo ebraico, ma ormai così accecata dall’ideologia e dall’odio viscerale per Netanyahu da non pensare neppure al pericolo evidente e concreto che il progetto palestinista rappresenta per la sopravvivenza fisica loro e delle loro famiglie. La rinuncia al sionismo è ormai compiuta. Gli elettori israeliani l’hanno capito e li hanno da tempo condannati all’insignificanza politica. Speriamo che anche le comunità della diaspora capiscano il senso di queste posizioni, spesso sopravvalutate perché si ammantano di prestigio intellettuale e “morale”.

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