Torino: due diversi dibattiti sulla disinformazione

La sede del Circolo della Stampa del capoluogo piemontese ha ospitato due conferenze nel giro di pochi giorni

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Emanuel Segre Amar
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Debunking

Torino: due diversi dibattiti sulla disinformazione

La sede del Circolo della Stampa del capoluogo piemontese ha ospitato due conferenze nel giro di pochi giorni

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Emanuel Segre Amar

Lunedì 25 settembre era in calendario un convegno organizzato dall’Ordine dei Giornalisti in collaborazione col Gruppo Sionistico Piemontese. Purtroppo una circolare partita, pare, dalla sede romana dell’Ordine indicava un luogo diverso da quello prestigioso nel centro di Torino, in corso Stati Uniti e la maggior parte dei giornalisti che si erano iscritti hanno preferito, una volta arrivati nella sede sbagliata, tornare alle loro occupazioni.

Ugo Volli, da par suo, ha fatto una dotta introduzione al dibattito prima di entrare nel vivo della discussione. Ha spiegato, appoggiandosi anche a numerosi grafici, come sta cambiando il mondo dell’informazione, con la crisi sempre più profonda dei giornali cartacei, e la parallela crescita dell’informazione trasmessa via web o via cellulare, con forti differenze per le differenze fasce di età, il che mostra una netta differenza di abitudini tra i giovani e le persone più anziane.

È davvero corretto affermare che l’informazione venga dai giornali e la disinformazione da altrove? Molti pensano, al contrario, che ricorrere alla rete permetta di aggirare il limite che regime e stampa impongono ai lettori. E la cosa interessante è che hanno ragione entrambe le teorie. Poi Volli cita, tra gli altri esempi ai quali bisogna porre attenzione, la nota affermazione del New York Times di abbandonare la neutralità per il “pericolo Trump”.

Successivamente Marco Reis ha parlato della disinformazione per immagini, iniziando la sua spiegazione mostrando un proclama di Mussolini che già nel 1937, inaugurando Cinecittà, fece esporre un grande manifesto nel quale stava scritto: la cinematografia è l’arma più forte; e Churchill, pochi anni dopo, affermava che “in ogni guerra la prima vittima è sempre la verità”: queste parole sono tuttora valide. Sono successivamente nate delle polemiche tra Reis ed alcuni giornalisti a proposito di un video messo in rete (e diffuso con grande evidenza) come documento, tra l’altro finanziato dal governo svedese, che mostrava un bambino che sembrava trovarsi in mezzo ad una battaglia ma che, contestato da chi ne colse la falsità, venne poi derubricato dagli autori a semplice finzione cinematografica per illustrare la situazione dei bambini nel conflitto in corso; tali polemiche hanno finito per impedire al prof. Volli di entrare nel merito specifico della disinformazione nei confronti di Israele, come egli si era ripromesso di fare nell’ultima parte del dibattito, per mancanza di tempo. Ha così chiuso affermando che i giornalisti pensano spesso più ad educare e ad edificare il pubblico che a informarlo, spiegando alle persone come devono pensare, convinti di aver fallito se non ci riescono.

In modo ben diverso si è svolto il convegno del successivo giovedì 28 settembre avente, per titolo, “Islam e giornalismo: immagini, racconti e manipolazioni sui media italiani”.

Con la moderazione di Beppe Gandolfo, giornalista Mediaset, si è discusso di “quanto i mass media, dall’attacco alle torri gemelle alla comparsa dell’Organizzazione dello Stato Islamico, hanno contribuito ad alimentare una propaganda islamofobica nel mondo occidentale”. Si è parlato, insomma, “dell’impegno deontologico del giornalista, dei doveri rispetto a realtà falsificate ed allarmismo”.

L’argomento prometteva di essere interessante, ma…

Ha iniziato Laura Silvia Battaglia, “giornalista professionista, corrispondente dallo Yemen” che affronta l’argomento parlando degli elementi pregiudizievoli che sono alla base dell’informazione; “quali sono i pregiudizi appropriati?“, “bisogna essere onesti, ma i pregiudizi fanno parte del nostro percorso”, “noi siamo un mercato che risponde a certe esigenze”, “noi esprimiamo il nostro punto di vista, mentre scriviamo”, “i media occidentali considerano l’Islam come un capro espiatorio, e per la destra rappresenta la barbarie“. La professionista ha poi spiegato che “esiste un Islam moderato ed uno radicale”, e che “l’Islam estremista, che è da alcuni considerato essere un Islam ignorante, si contrappone a tutti gli altri Islam che sembrerebbero soccombenti“. “Al contrario l’Islam politico, che ha preso in mano molti stati, fa enormi danni alla parola Islam“. “E poi, il terrorismo è solo islamico? In realtà ve ne sono molti altri di terrorismi.”

“Fondamentalismo” è un’altra parola pregiudizievole, verità della Battaglia tuttavia non meglio spiegata. “E non bisogna identificare qualsiasi gruppo con Al Qaeda, così come è stato un grave errore, nel 2013, identificare tutti come Fratelli Musulmani, o sostenere che tutto nasce dal settarismo tra sunniti e sciiti” (già, non dimentichiamo che l’oratrice ha vissuto 3 anni nello Yemen). Ha concluso spiegando che “la parola jihad sta a significare semplicemente lo sforzo più importante che una persona deve fare, nel suo quotidiano“.

Seconda oratrice del convegno, Tiziana Ciavardini del Fatto Quotidiano e “portavoce dell’Università Islamica” ha contestato che l’Islam sia “per sua natura votato al conflitto e che il mondo islamico sia una minaccia per il mondo occidentale“, cercando di “correggere queste idee“. Avendo ella, per sua stessa affermazione, “vissuto per 25 anni in paesi a maggioranza musulmana (molti in Iran), siccome “in Italia non abbiamo conoscenza della religione musulmana“, ha voluto “portare la sua esperienza di donna” (sottolineo la sua lunga permanenza in Iran, paese del quale non ha colto alcun aspetto negativo). “Quanta malafede c’è nel parlare di Islam!“, “gli editori vogliono farci credere ciò che non è”, “vivo dal 2003 in Iran dove posso vedere i TG italiani che sono diversi da ciò che vivo“, ed allora ha lasciato l’insegnamento universitario preferendo scrivere; “i media ci fanno spesso un lavaggio del cervello“. Alla Ciavardini “preme arrivare al popolo“, unica strada “per far comprendere Islam e immigrazione“.

Anche per la Ciavardini i “media hanno un’enorme influenza sull’uomo”, e “potere e responsabilità sono nelle mani degli operatori, di coloro che scrivono sui media e di quelli che si esprimono sui social”. I “giornalisti non sono tenuti a sapere di tutto, non sono esperti di Islam (non siamo imam!) e, di conseguenza l’Ordine dei Giornalisti dovrebbe titolare giornalisti e anche il lettore”. Per fortuna che “almeno il giornalista Facci, che scrisse un articolo parlando male di Islam, anche con frasi razziste, è stato sospeso per due mesi”. “Pretende che, se si scrive qualcosa, sia vero e non manipolato”; la disinformazione ha “lo scopo di influenzare le scelte di alcuni, di occultare verità scomode e di cercare di persuadere” (che profondità di analisi! ndr). La giornalista illustra una fotografia manipolata nella quale si fanno vedere delle studentesse sedute per terra ma si nascondono delle donne comodamente sedute per far passare la “falsa idea della sottomissione della donna”. Anche la ben nota fotografia delle tante “spose bambine per mano ai loro mariti” è una bufala essendo, nella realtà, delle semplici damigelle di nozze (anche se, ammette, è vero che ci sono spose bambine). “L’Ordine dovrebbe lavorare su questa disinformazione!” Dopo un attacco a Souad Sbai che scrive su Libero, protesta perché non ci sono “conseguenze per i giornalisti che mentono”, ragione per la quale “la disinformazione miete le sue vittime ovunque”, mentre “l’informazione ci deve garantire la correttezza”.

Stefania Miretti, già collaboratrice de La Stampa e poi vice-direttrice di Gioia, autrice di: “Non aspettarmi vivo – La banalità dell’orrore nelle voci dei ragazzi jihadisti”, specializzata nel parlare con le famiglie dei giovani che hanno raggiunto l’ISIS partendo dalla Tunisia, spiega che vuole che “siano le comunità musulmane a parlare”. Racconta così la storia di “un giovane sedicenne che non è mai giunta sui giornali e che è morto nello stesso giorno del Bataclan“: “oggi il vero problema non sono le fake news, ma le no news”, e spesso “i media vanno dietro ai fake considerati dai giornalisti come fonti”. Ci spiega anche che “non è del tutto vero che i terroristi ce l’hanno coi nostri stili di vita, ma che anzi un sacco di giovani diventati terroristi avevano il nostro stile di vita” (peccato che non vada oltre in questa analisi). “Il fondamentalismo, dobbiamo capire tutti, così come abbiamo fatto noi incontrando le famiglie dei tunisini, non è solo caratteristico dell’Islam; in tutto il mondo delle persone passano all’identitarismo, si vogliono definire abitanti di una piccola patria propositiva e positiva” (sic). “L’Islam radicale deve essere visto come una forma di populismo; sono due linguaggi speculari.” Infine denuncia che “il giornalismo ha rinunciato ad indagare su certi imam che vengono portati in TV“.

Andreja Restek, “fotoreporter che segue e monitora il fenomeno dei gruppi terroristici nel mondo” (deve aver un coraggio da leone, lei, per di più donna ndr), fatta venire appositamente dalla Turchia per questo convegno, spiega che “i giornalisti ed i fotoreporters sono educatori del popolo”. “In Europa c’è un 2% di musulmani, ma qui si crede che siano 30-40%”. “L’Ordine dei Giornalisti dovrebbe richiamare alla correttezza”, “dobbiamo togliere la paura perché non c’entra l’Islam, e questi sono solo un gruppo di delinquenti”. “Vi è poi una grande confusione sul termine al Qaeda, e si dovrebbe fare un corso su come usare certe terminologie”.

Per ultimo ha parlato Sherif El Sebaie, opinionista di Panorama, “esperto di diplomazia culturale, di rapporti euro-mediterranei e di politiche sociali d’integrazione”; anche per lui “i giornalisti sono educatori del popolo”, e critica il fatto che “il lettore, quando apre il giornale, può farsi solo un’opinione negativa dell’Islam”. “Il fondamentalismo non è necessariamente violento”. Gli egiziani che “erano emigrati e si erano dovuti sottomettere in Arabia Saudita alle leggi locali, si erano fatta l’idea che ciò che la religione dice è la visione giusta”, ed hanno riportato quelle idee in un Egitto che, negli anni ’20 accoglieva le femministe senza veli. “Nell’Islam non c’è gerarchia e quindi tutti possono sostenere tutto; ma ciò vale anche tra gli ebrei ortodossi e nelle sette cristiane dov’è non c’è nulla di diverso”

“Islam e terrorismo non c’entrano (i terroristi prendono un pezzo qua ed un pezzo là), si mescolano varie visioni dell’Islam che, in realtà, si può contestualizzare, ma noi in Europa non vediamo nulla”.

“Non è giusto affermare che i musulmani non manifestano, ma le loro comunità egiziane, tunisine ecc. lo fanno se succede qualcosa che le tocca da vicino.” “Non esiste una Comunità islamica, se non nel concetto di Islam politico; e la parola -islamista-, che, dal francese, significa “studioso di Islam”, è colui che aderisce all’Islam politico e che, nel mondo arabo, piega la religione facendone una specie di manifesto elettorale” (e in Iran, paese non arabo, è diverso? ndr)”Non si può inoltre parlare di comunità islamica, perché sono tanti gruppi diversi, anche per la fede”. “Purtroppo in televisione si tende a rafforzare l’Islam politico e ciò non va bene e contribuisce a diffondere l’islamofobia”.

Mi è parso impossibile, a conclusione di questo convegno, contestare tante affermazioni di tutti gli oratori, ed ho preferito chiedere come mai, a differenza della sospensione decretata contro il giornalista Facci, lo stesso non sia avvenuto per Riccardo Cristiano, del quale ho ricordato ai presenti le malefatte, o per i direttori dei giornali che pubblicano scientemente fotografie contraffatte, tutte contro Israele, delle quali ne ho illustrata una. Mi ha risposto il moderatore Gandolfo, nella sua vece di consigliere nazionale dell’Ordine dei Giornalisti, sostenendo che è “facoltà di tutti noi di fare esposti all’Ordine assicurando che poi il Consiglio Nazionale risponde”; “il miglioramento passa attraverso la correzione”.

Ho anche ricordato, a proposito della predica fatta dall’Imam di Al Azhar di fronte all’allora presidente Morsi, le parole di virulento attacco contro gli ebrei, chiamati scimmie e maiali, e che devono essere annientati, predica ascoltata senza reazione alcuna da Morsi, e, come risposta, mi è stato detto che appunto 30 milioni di egiziani scesero in piazza contro i Fratelli Musulmani, il cui pensiero sugli ebrei è esattamente quello che avevo ricordato. Nella risposta El Sebaie aggiunse che nella stessa occasione quell’imam parlò male anche degli sciiti causando l’uccisione di una famiglia sciita.

Ultima perla del pomeriggio: “I numeri che entrano in Italia ed i tassi di fertilità sono elevati ma i giovani che qui nascono vengono educati secondo la cultura del paese. Tocca poi ai governi stabilire i parametri per la convivenza. Altrove ci sono quartieri dove lo stato non esiste e alcuni si sono così imposti sui loro connazionali nei ghetti dove sono concentrati (la parola ghetto per me dovrebbe avere un diverso significato: di gente obbligata a vivere lì dentro prigioniera, non di persone che preferiscono vivere vicino ai propri amici); purtroppo la colpa sta nello stato centrale che ha lasciato fare

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