Quando è che l’America s’è scordata di essere l’America?

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Rassegna Stampa

Quando è che l’America s’è scordata di essere l’America?

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Venerdì 15 Aprile il Washington Post ha pubblicato un’interessante riflessione di Nathan Sharansky, attivista per i diritti umani, ex prigioniero politico in Unione Sovietica e presidente dell’Agenzia Ebraica per Israele. Una lucida valutazione delle ultime scelte effettuate dagli Stati Uniti in politica estera che vi riproponiamo tradotta in italiano.

 

 

In diverse occasioni, nel corso dei negoziati sul programma nucleare iraniano, il governo israeliano ha lanciato un appello agli Stati Uniti e ai suoi alleati per richiedere un cambiamento nel comportamento aggressivo di Teheran. Se l’Iran vuole essere trattato come uno stato normale, ha detto Israele, allora dovrebbe cominciare ad agire come tale. Purtroppo, questi appelli sono caduti nel vuoto. L’amministrazione Obama apparentemente crede che solo dopo che un accordo nucleare sia stato firmato il mondo libero possa aspettarsi che l’Iran arresti i propri tentativi di dominio della regione, migliori la propria situazione dei diritti umani e, in generale, si comporti come quello stato civile che spera il mondo gli riconosca essere.

Come ex dissidente sovietico, non posso fare a meno di confrontare questo approccio a quello tenuto dagli Stati Uniti durante i suoi decennali negoziati con l’Unione Sovietica, che all’epoca era una superpotenza globale e una minaccia esistenziale per il mondo libero. Le differenze sono sorprendenti e rivelatrici.

Per iniziare, si consideri che il regime sovietico si sentì obbligato a fare la sua prima concessione ideologica semplicemente al fine di avviare i negoziati con gli Stati Uniti sulla cooperazione economica. Alla fine del 1950, Mosca abbandonò la sua dottrina di fomentare la rivoluzione comunista mondiale e al suo posto adottò la teoria della convivenza pacifica tra comunismo e capitalismo. La leadership sovietica pagò un prezzo salato per questa concessione, sia internamente – sotto forma di milioni di cittadini che, come me, erano stati costretti a studiare il marxismo e il leninismo come la verità e di colpo si trovarono confusi dal suo parziale abbandono – che sul piano internazionale, nei suoi rapporti con i cinesi e gli altri comunisti dogmatici che videro quel cambiamento come un tradimento. Tuttavia, il governo sovietico aveva capito che non c’era altro modo di ottenere ciò di cui aveva bisogno da parte degli Stati Uniti.

Immaginate cosa sarebbe successo se invece, dopo aver completato un ciclo di negoziati sul disarmo, l’Unione Sovietica avesse dichiarato che il suo diritto di esportare il comunismo in tutto i continente non era in discussione. Questo avrebbe significato la fine dei colloqui. Eppure oggi, l’Iran non sente alcuna necessità di attenuare la propria retorica nell’invocare la morte dell’America e la cancellazione di Israele dalla carta geografica.

Naturalmente, i cambiamenti nella retorica non avevano cambiato la politica dell’Unione Sovietica, che incluse l’invio dei missili a Cuba, dei carri armati a Praga e dell’esercito in Afghanistan. Ma ogni volta tali aggressioni provocarono gravi crisi nelle relazioni tra Mosca e Washington, influenzando l’atmosfera ed i risultati dei negoziati tra le parti. Così, per esempio, quando i sovietici invasero l’Afghanistan poco dopo che era stato firmato l’accordo SALT II, gli Stati Uniti abbandonarono rapidamente l’accordo e le discussioni collaterali.

Oggi, invece, a quanto pare nessun livello di belligeranza da parte dell’Iran può convincere il mondo libero che Teheran si sia squalificato dai negoziati o dai vantaggi da essi offerti. Solo nello scorso mese, mentre continuavano le discussioni sul nucleare, abbiamo osservato il gruppo del terrore per procura iraniana, Hezbollah, trasformarsi in un esercito in piena regola lungo il confine settentrionale di Israele e abbiamo visto Teheran continuare a imporre il proprio dominio su altri paesi, aggiungendo lo Yemen alla lista di quelli già sotto il suo controllo.

Poi c’è la questione dei diritti umani. Quando le trattative americane con i sovietici raggiunsero la questione del commercio – e in particolare la revoca delle sanzioni e il conferimento dello status di nazione più favorita per l’Unione Sovietica, il Senato, guidata dal democratico Henry Jackson, insistitette sul collegare la normalizzazione economica con la concessione della libertà di emigrazione da parte di Mosca. Entro l’anno successivo, quando fu firmato l’accordo di Helsinki, la Casa Bianca si era unita al Congresso nel rendere il trattamento dei dissidenti sovietici una questione centrale in pressoché ogni trattativa.

La triste condizione dei diritti umani in Iran, invece, è passata completamente sotto silenzio nei recenti negoziati. Purtroppo, la reticenza degli Stati Uniti è consueta: nel 2009, in risposta alle rivolte democratiche che avevano mobilitato così tanti cittadini iraniani, il presidente Obama dichiarò che coinvolgere il regime teocratico avrebbe avuto la priorità sul trasformarlo.

La realtà è complessa e l’uso di analogie storiche ha sempre qualche limite. Ma anche questo superficiale confronto mostra che ciò che gli Stati Uniti ritenne allora opportuno richiedere dal concorrente più potente e pericoloso che avesse mai conosciuto è ormai considerato oltre il recinto dei suoi rapporti con l’Iran.

Perché questo drammatico cambiamento? Si potrebbe suggerire una risposta semplice: oggi c’è qualcosa che gli Stati Uniti esigono a malapena dall’Iran, lasciando Washington e i suoi alleati con ben poco potere contrattuale nel chiedere ulteriori concessioni. Ma in realtà l’Iran ha almeno altrettanti motivi per sperare in un accordo. Per Teheran la revoca delle sanzioni potrebbe fare la differenza tra il fallimento e il diventare una superpotenza economica regionale; rallentando la sua corsa agli armamenti si potrebbe evitare un attacco militare.

Temo che la vera ragione della posizione degli Stati Uniti non è la sua valutazione, per quanto errata, dei rispettivi interessi per entrambe le parti, ma piuttosto una tragica perdita di morale, di fiducia in se stessi. Durante i negoziati con l’Unione Sovietica le amministrazioni statunitensi, di qualunque tipo, si sentivano certe della superiorità morale del proprio sistema politico rispetto a quello sovietico. Sentivano di parlare in nome del proprio popolo e del mondo libero nel suo insieme, mentre i dirigenti del regime sovietico non potevano parlavare per nessuno altro se non se stessi e il declinante numero di autentici credenti ancora fedeli alla loro ideologia.

Ma nel mondo postmoderno di oggi, quando affermare la superiorità della democrazia liberale rispetto ad altri regimi appare la pittoresca reliquia di un passato coloniale, anche gli Stati Uniti sembrano aver perso il coraggio delle proprie convinzioni.

Dobbiamo ancora assitere a tutte le conseguenze di questa diffidenza morale, ma una cosa è chiara: la perdita di un’auto-fiduciosa leadership globale dell’America minaccia non solo gli Stati Uniti e Israele, ma anche il popolo iraniano e un numero crescente di altri popoli che vivono sotto dominazioni sempre più fomentate da Teheran. Anche se l’ora è sempre più tarda, c’è ancora tempo per cambiare rotta – prima che gli effetti crescono in modi ancor più catastrofici.

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