Il conflitto fra giudici e politica che sta dietro alla scelta del Likud di ricandidare Netanyahu a primo ministro

Ugo Volli
Ugo Volli
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Israele

Il conflitto fra giudici e politica che sta dietro alla scelta del Likud di ricandidare Netanyahu a primo ministro

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Ugo Volli
Ugo Volli

Bibi Netanyahu ha ottenuto una grande vittoria (oltre il 72 % dei voti) alle primarie del Likud che si sono tenute giovedì scorso. E’ un voto che merita una riflessione, non solo perché il Likud è non solo la forza politica che, governando Israele da trent’anni con poche interruzioni, ha fatto dello Stato ebraico quel successo economico, politico, culturale, tecnologico e militare che oggi tutti riconoscono, ma anche di gran lunga il maggiore partito israeliano (dato che “Bianco-azzurro” è il nome di una federazione di partitini personali di leader uniti quasi solo dalla determinazione di porre termine alla carriera politica dello stesso Netanyahu).

Ma vi è qualcosa di più importante in questo voto, al di là delle tendenze dei militanti della destra storica israeliana. Ed è il rifiuto opposto alla coalizione che va dai Bianco-azzurri ai partiti arabi filoterroristi, passando per i laboristi e la “strana destra” di Lieberman, di venire a patti con qualunque leadership del Likud, che non fosse Netanyahu, e dunque di rifiutare di sacrificare il leader, che comunque è il primo ministro più longevo in un paese che è abituato a “uccidere i re”, fossero anche i più carismatici, come dovette sperimentare perfino “il padre della patria” David Ben Gurion. La fedeltà del Likud a Netanyahu in elezioni libere e a scrutinio segreto di tutti gli iscritti è una scelta politica forte e chiara: il partito non è disposto a cedere sul braccio di ferro ingaggiato sulla persona del suo leader, neppure dopo un anno di scontro.

La scelta è altrettanto chiara nei confronti del sistema giudiziario e in particolare del potentissimo procuratore generale Mardelblit. La sua è una figura che nel sistema italiano non esiste. E’ consigliere giuridico del governo, nel senso che può vagliare ogni decisione dell’amministrazione pubblica, in certi casi proibirla, in altri dichiarare che non intende difenderla in tribunale o alla corte suprema, con l’effetto di indicare al sistema giudiziario che la considera illegale o inaccettabile; attraverso di lui passano tutti i processi a funzionari pubblici, è lui che autorizza i “sistemi di interrogatorio speciali” che si dovrebbero applicare ai sospetti terroristi, ma che sempre più di frequente e con grandi polemiche nella stampa israeliana vengono usati anche contro l’estrema destra israeliana e perfino (senza pressioni fisiche, ma con perquisizioni al limite della legalità e forme di ricatto psicologiche che in Italia sono reati penali per gli inquirente che se ne arrogano l’uso) contro consiglieri e consulenti del Primo Ministro. E’ lui che potrebbe aprire inchieste sulle fughe di notizie che danneggiano certi imputati (soprattutto Netanyahu) ed è lui che ha dichiarato di voler rinviare a giudizio il premier (ma ancora non l’ha potuto fare effettivamente, perché deputati e  ministri possono chiedere l’immunità parlamentare, come una volta accadeva in Italia, e la decisione spetta a una commissione che si può costituire solo dopo la formazione di un governo). Le accuse per cui il Procuratore Generale vuole portare a processo Netanyahu sono abbastanza inaudite: a parte l’aver accettato qualche cassa di vini pregiati e sigari da vecchi amici, l’accusa è quella di corruzione. Ma non si tratta di aver ricevuto buste di denaro, ma di aver accettato di discutere con due proprietari di mezzi di comunicazione sulle politiche che il governo avrebbe potuto seguire per avere un trattamento meno ostile da parte dei loro media. Non c’è stato nessun accordo, Netanyahu a un certo punto ha perfino fatto cadere il governo per non far passare un provvedimento a favore di uno dei due gruppi editoriali, che era stato proposto dai suoi avversari politici (e Mandelblit non ha indagato sul perché e come l’avessero proposto). Molti giuristi internazionali hanno testimoniato che non vi sono mai state accuse analoghe in tutti i sistemi democratici. Mandelblit inoltre ha cercato, finora con successo, di impedire che il ministro della giustizia pro tempore nominasse un  procuratore, altrettanto pro tempore, di sua scelta, un privilegio che pure la legge gli concede. Insomma il conflitto fra governo e suo “consigliere”è aperto.

Ma lo scontro (di Netanyahu e quindi di nuovo del Likud)  non è solo con il procuratore generale. La corte suprema, che si è presa molti poteri che non sono fondati su alcuna legge, ha appoggiato Manderblit sul caso del procuratore, ordinando una sospensiva della nomina, che ha poi portato alla rinuncia della magistrata designata, ma ha anche accettato di decidere se Netanyahu potrà essere nominato in caso di vittoria di nuovo primo ministro, e dunque candidato dal Likud. La prima udienza su questo caso è fissata per il 31 dicembre, e il gruppo di giudici designato dalla presidente della corte suprema è stato molto criticato da alcuni  giornali israeliani, perché molto esposto politicamente. Il fatto è che la scelta di chi candidare rientra nell’autonomia dei partiti (e c’è un organo specifico per decidere casi di incompatibilità o indegnità), mentre la scelta di chi scegliere per l’incarico di tentare di formare il governo spetta al prosidente della repubblica. Da nessuna parte la legge israeliana (come quella italiana) assegna un compito al sistema giudiziario nel decidere come si debba costituire l’esecutivo, anzi la previsione di legge nel caso di un primo ministro incriminato è che fino alla condanna definitiva egli possa svolgere il suo compito.

Il semplice fatto che la corte suprema abbia accettato di giudicare il caso (il che nel sistema israeliano, come in quello americano non è obbligatorio) costituisce un’aperta invasione di campo del sistema giudiziario nel potere politico – l’ultimo di numerosi casi in cui i giudici si sono riservati decisioni definitive su campi politiche, scelte che riguardano la sicurezza, lo sviluppo urbanistico, l’ambito militare. Il voto del Likud, avvenuto dopo la decisione della corte suprema di entrare nel tema della possibile nuova nomina di Netanyahu a primo ministro,e in generale dei milioni di israeliani che, da quanto dicono i sondaggi, hanno fiducia in lui e continuerebbero a votarlo è evidentemente una risposta a questa sfida e indica la consapevolezza, da parte del più importante partito israeliano, dell’urgenza di frenare l’attivismo politico della corte. Israele non è il solo paese in cui accadono interferenze politiche dei giudici: è successo spesso di recente  in America, anche in Italia e con le corti europee. Anche in questo caso lo stato ebraico si avvia ad essere pietra di paragone e luogo di sperimentazione su un tema decisivo, se cioè i sistemi politici occidentali possano continuare a essere democratici o si avviino sempre più ad essere governate sui temi decisivi da giudici non eletti, scelti per concorso e sostanzialmente cooptati sulla base non solo di una competenza giuridica ma anche di una conformità ideologica, che non corrisponde più agli orientamenti dell’elettorato.

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