“La vita graffiata”, la storia di un cuore spezzato

Miriam Spizzichino
Miriam SpizzichinoScrittrice & Blogger
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Cultura

“La vita graffiata”, la storia di un cuore spezzato

Cultura
Miriam Spizzichino
Miriam SpizzichinoScrittrice & Blogger

“La vita graffiata” è un romanzo, dal titolo molto particolare, scritto della scrittrice israeliana Tamar Verete-Zehavi, conosciuta anche dai lettori di Ha’aretz.
Come può la vita di Ella, adolescente israeliana, essere graffiata? A quanto pare è possibile, ma la colpa non è sua. E’ di Nadira, la ragazza che si fece esplodere all’ingresso di un supermercato dove Ella, acquistava le provviste per la nonna nel giorno dello Shabbat. Rimane ferita. Oltre al suo dolore fisico, però, ne subentra uno più profondo: la morte della sua amica etiope, Yerus, con cui si era data appuntamento proprio lì.
“Ella non guardarti intorno, non conviene muoversi. Non ti vogliamo paralizzata”. La voce da Robot ha cercato di calmarmi, non taceva un attimo: “Ella hai visto almeno venti attentati in TV. Tra pochissimo la squadra del pronto intervento sarà qui. Ella, sei cosciente. Stai respirando. Sei seriamente ustionata”. […] Proprio non ho pensato a Yerus, ho dimenticato che mi stava aspettando all’entrata. Ho pensato solo a me stessa, a quanto pare.

In un attimo, Ella, si vede strappar via la sua spensieratezza e la sua migliore amica. Da lì, tutto non sarà più come prima. Arrivano i soccorsi, la portano velocemente in ospedale dove riceve le cure necessarie. È triste, non mangia e il rifiuto con chi vuole aiutarla è categorico. I problemi più gravi arrivano al rientro a casa con il ritorno alla quotidianità: la stessa quotidianità che lei aveva rinnegato, chiusa nel suo dolore ma soprattutto nella sua paura di dover tornare “alla normalità”. Nota felice di quella permanenza in ospedale era la presenza del palestinese Maher che, insieme ad Eitan, ha cercato di aiutarla nel recupero sia fisico che psicologico.

Una cosa, però, posso dirvi: ciò che mi ha colpito maggiormente del romanzo, ma soprattutto della scrittrice sono state la psicologia e lo studio approfondito che sta a monte dello stesso. Tamar, infatti, ha studiato Psicologia e Psicoanalisi. Proprio per questo riesce ad esplicare al meglio lo spessore psicologico di un personaggio provato dal trauma vissuto che, per superare questo “ostacolo”, cerca addirittura di immaginare la vita della terrorista, di sognare un possibile cambiamento di rotta che la porta a non farsi esplodere e di spiegarsi perché ha deciso di porre fine alla sua vita “uccidendo più ebrei possibili”. Proprio in questo l’aiuto di Maher è molto importante.

Ella, israeliana. Maher, palestinese. Due opposti in continuo conflitto, o almeno così dovrebbe essere per chi vede la situazione israelo-palestinese dall’esterno. Ma non è così. In questo racconto, i due personaggi avrebbero potuto scontrarsi e odiarsi per tutto ciò che accade intorno a loro e invece, con sorpresa del lettore, diventano amici e complici. Si vogliono bene, nonostante i discorsi di Maher contro i soldati israeliani e quelli di Ella contro il terrorismo palestinese. Entrambi metteranno da parte la guerra in corso e diventeranno amici. Un tema davvero toccante che la scrittrice stessa sente molto vicino in quanto ha lavorato per diversi anni nel programma di Educazione alla Tolleranza con ebrei e arabi. Nella sua attività ha sempre cercato di incoraggiare i giovani lettori a impegnarsi per la pace: adora partecipare alle lezioni in classi miste in cui convivono giovani palestinesi e israeliani, e discutere con loro apertamente del conflitto e delle modalità per risolverlo. Tutto ciò l’ha portata a ricevere nel 2000 il premio Jerusalem Foundation Marthe, insieme allo scrittore arabo Abedalsalam Yunis per il loro impegno nell’affermare i valori di tolleranza e democrazia.

Questo romanzo fa capire che dietro ad un conflitto, ma soprattutto dietro la pazzia dei terroristi, ci sono ragazzi, israeliani e palestinesi, che sono le prime vittime indifese. È possibile che in un paese democratico e multietnico debbano esserci ancora epiloghi di morte e paura? Perché non si riesce a vivere nella pace e nel rispetto reciproco? Finché esisteranno ancora persone che hanno il desiderio di “uccidere più ebrei possibili”, la pace non potrà mai esserci. Israele è un inno alla vita e la gioia degli abitanti si respira ogni giorno, ad ogni ora, in qualsiasi strada. Purtroppo, lo spettro della paura e del pericolo, insito nell’animo umano, convivranno insieme ancora per un po’. Almeno fino a quando non ci saranno più persone pronte a farsi esplodere o a investire con la macchina i passanti.

Dice bene Jonathan Kashanian nel commento finale: “Quello che emerge in “La vita graffiata” è un ritratto sconcertante degli adolescenti che vivono in Medio Oriente: da chi ascolta la musica reggae di Bob Marley a chi sogna con Saranno Famosi e Mary Poppins, a chi ancora condivide con Harry Potter una cicatrice sulla fronte; giovani obbligati a crescere velocemente e a ragionare come adulti, privati del loro diritto alla frivolezza; giovani che si abituano in fretta al male, che amano odiare, ma che sanno anche perdonare.”

Ella, fino alla fine del romanzo, ha il desiderio di capire perché Nadira sia arrivata ad una decisione del genere: metter fine brutalmente alla sua vita. Vuole mettersi nei suoi panni e, magari, provare a fermarla invano. Imparerà a sue spese che forse è necessario accettare che non è possibile comprendere tutto. Solo così il suo cuore spezzato potrà iniziare a vivere nuovamente.

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