La crisi di Gaza: che cosa può succedere e perché

Ugo Volli
Ugo Volli
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Terrorismo

La crisi di Gaza: che cosa può succedere e perché

Terrorismo
Ugo Volli
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Ammettiamolo, anche a un cittadino non distratto è difficile capire quel che accade a Gaza e dintorni. Buona parte della colpa è dei giornali, che informano poco e male, spesso con pregiudizi ideologici antisraeliani. Ma la situazione è di per sé complicata, difficile da capire, spesso ripetitiva, con crisi che non arrivano a soluzione.

Vediamo di capire meglio. In primo luogo il territorio di Gaza è un rettangolo piatto e sabbioso, lungo più o meno 40 km e largo 10, che è stato storicamente una delle tappe importanti sulla strada fra l’Egitto e la Siria, con un’antichissima presenza ebraica. Fino al 1919 era sotto sovranità turca, poi fece parte del mandato britannico di Palestina. Nel 1949 fu conquistato dall’esercito egiziano che vi istallò per qualche anno un governo fantoccio arabo per tutto il territorio israeliano, che naturalmente non funzionò mai e fu sciolto da Nasser nel ‘59. Nel ‘67 Gaza fu conquistata da Israele e anche nel trattato di pace del ‘79, l’Egitto rinunciò a ogni pretesa sulla striscia. Nel ‘94 buona parte del territorio passò sotto l’amministrazione dell’Autorità Palestinese e nel 2005, su decisione di Sharon, Israele si ritirò unilateralmente dagli ultimi insediamenti. Invece di portare alla pace, però, la fine dell’occupazione intensificò la violenza, tanto contro il territorio israeliano, quanto fra arabi. Nel 2007 Hamas si ribellò contro il presidente dell’Autorità Palestinese e prese il potere a Gaza, organizzandola come una base terroristica. Israele fu costretto a un blocco nevele della striscia, per limitare i rifornimenti di armi, provvedendo invece direttamente ai rifornimenti civili. Ma il terrorismo si aggravò sempre, con il rapimento del soldato Shalit e l’uso da parte di Hamas di missili e tunnel d’attacco contro i villaggi circostanti. La continua attività terroristica, con razzi che ormai arrivano anche sul centro di Israele, fu contrastata e limitata da grandi operazioni militari, l’ultima nel 2014.

Israele però non ha saputo o voluto eliminare il governo di Hamas, perché in assenza di alternative politiche realistiche questo richiederebbe l’occupazione di un territorio dove vive un milione e mezzo di persone, fra cui almeno un dieci per cento è arruolato, pagato e addestrato dalle organizzazioni terroristiche. E’ vero che nell’ultimo periodo vi sono state manifestazioni di protesta violentemente represse da Hamas, ma esse hanno carattere economico, sono provocate anche dal blocco degli stipendi pubblici e da altre misure di boicottaggio economico mantenute dall’Autorità Palestinese per danneggiare Hamas. Ma la popolazione in sostanza appoggia il terrorismo contro Israele, come si è visto nelle molte decine di manifestazioni sotto la barriera di confine organizzate da Hamas ogni settimana da un anno: vi hanno partecipato decine di migliaia di persone, che servono da scudi umani per il terrorismo, l’uso di bombe contro i militari israeliani, i tentativi di sfondare la frontiera e di uccidere o rapire israeliani, i lanci di palloni e aquiloni esplosivi e incendiari.

Hamas gestisce le manifestazioni di massa, i lanci di missili, i tentativi di invasione secondo una logica politica che dipende fortemente dal suo asservimento all’Iran, il quale è interessato a indebolire Israele politicamente (facendolo cioè apparire oppressivo e violento per rendere difficile la sua alleanza con i paesi arabi e rafforzando l’ostilità europea) e militarmente (aprendo un secondo fronte al sud di Israele per sguarnire il confine settentrionale e rendere più difficile il contrasto al suo armamento in Siria e Libano). In sostanza Hamas cerca di colpire Israele come può, sapendo che se riesce a colpire una casa coi razzi, a ferire, uccidere o rapire un israeliano potrà comunque vantarsi del risultato. E se non ci riesce avrà comunque la possibilità di lamentarsi della rappresaglia israeliana. E’ una guerra psicologica, o come si dice oggi “cognitiva”.

Siamo a uno stallo. Hamas non ha certamente la forza per minacciare seriamente Israele sul piano militare. Ma a Israele non conviene cercare di distruggere il governo di Hamas sulla Striscia: il costo militare di una guerriglia urbana su un territorio del genere sarebbe molto alto in termini di soldati morti; e il costo politico sarebbe ancora più alto, perché la conquista di Gaza comporterebbe perdite civili altissime, che lacererebbero le alleanze di Israele e lo lascerebbero in un isolamento che l’Iran si affretterebbe a sfruttare. Una guerra a Gaza vorrebbe dire anche il bombardamento del centro del paese, cui non potrebbe fare scudo del tutto Iron Dome, con altre perdite. E questa potrebbe essere anche l’occasione fornita all’Iran di intervenire “al soccorso dei fratelli di Gaza”, senza che i paesi arabi alleati di fatto di Israele o la Russia potessero interferire.

gaza-protesta-hamas-progetto-dreyfusOltretutto, non esiste nessun ricambio al potere di Hamas: non ci sono dissidenti democratici, l’Autorità Palestinese si rifiuterebbe di subentrare e comunque non sarebbe in grado di farlo, il secondo gruppo armato a Gaza dopo Hamas è la Jihad islamica, direttamente legata all’Iran, che proseguirebbe la politica di Hamas. Un’occupazione prolungata di Gaza sarebbe difficilissima, con perdite quotidiane. Di questa situazione fa parte anche la giusta pressione dell’opinione pubblica israeliana, che al di là dei calcoli strategici pretende sicurezza. E naturalmente questa pressione è accentuata in un periodo elettorale. Aggiungiamo che anche a Gaza c’è un’opinione pubblica, insoddisfatta di Hamas ma fortemente antisraeliana, che i dirigenti terroristi potrebbero cercare di tener buona con una guerra.

Il fatto è che non c’è una soluzione magica a questa difficilissima situazione. Tutti i responsabili israeliani sanno che una guerra a Gaza sarebbe un’errore, e doverla iniziare sarebbe già una sconfitta. C’è chi parla di “deterrenza” perduta, ma la nozione di deterrenza si applica a un governo che vuole il benessere dei suoi cittadini, non a un gruppo terrorista determinato a sfruttarne le sofferenze e disposto a sfidare al morte per ragioni religiose. Israele può solo cercare di contenere la violenza, danneggiando il più possibile le infrastrutture terroristiche senza provocare vittime (che sarebbero utilizzate contro di lui); la sua prevalenza militare e tecnologica è in parte bloccata; può dunque cercare di logorare il nemico, avendo i nervi più saldi di lui.

Il tempo e la politica lavorano per Israele, come mostra negli ultimi giorni il riconoscimento americano del Golan e l’apertura di nuove ambasciate a Gerusalemme, oltre che i successi economici e diplomatici. La guerra è una trappola, che può essere inevitabile ma in questo caso andrà gestita in maniera veloce e innovativa. Il rischio è grandissimo di qui alle elezioni, dove Hamas e l’Autorità Palestinese, l’Iran e Hezbollah votano con le azioni contro Netanyahu, cercando di creare in Israele paralisi e confusione. Ma al di là delle esagerazioni elettorali, possiamo essere sicuri che nei fatti la gestione della crisi è in mani esperte e sicure.

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