Chiune Sugihara, l’uomo che salvò quasi seimila ebrei

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David Spagnoletto
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Chiune Sugihara, l’uomo che salvò quasi seimila ebrei

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David Spagnoletto

La sua storia oggi è nota Israele, in Giappone e tra la comunità ebraica di Lituania e Polonia, meno in Occidente, dove nei libri di storia al momento non ha trovato posto. E invece Chiune Sugihara un posto lo meriterebbe eccome, perché non solo ha salvato migliaia di ebrei, ma perché l’ha fatto senza alcun ritorno personale, anzi. Ha rischiato la sua vita e quella della sua famiglia per i 2139 visti di transito firmati tra il 31 luglio e il 28 agosto 1940 che hanno permesso a quasi seimila ebrei di trovare rifugio in territorio nipponico. Durante la Seconda Guerra Mondiale, il diplomatico giapponese era Viceconsole in Lituania per l’Impero del Giappone, paese alleato sì della Germania nazista ma assolutamente contrario alla Soluzione Finale del popolo ebraico. Il problema del Giappone semmai era quello di non ospitare persone che non avevano abbastanza denaro. E gli ebrei provenienti dalla Polonia occupata occidentale o russo-occupata Polonia orientale e i residenti lituani di denaro non ne avevano proprio.

Per questo Sugihara chiese più volte al ministero di Tokyo come avrebbe dovuto comportarsi con tutti coloro che erano  fuori al consolato per chiedere aiuto a cui in seguito disse di chiamarlo “Sempo,” perché non riuscivano a pronunciare il suo nome. La risposta fu sempre la stessa: se non hanno soldi a sufficienza, non possono entrare in Giappone. Questo però non lo fermò, anche se era perfettamente a conoscenza che i visti di transito firmati erano tecnicamente illegali. Secondo la moglie ne firmò ogni giorno lo stesso numero che si faceva in un mese. Quando il governo giapponese gli chiese di chiudere il consolato e di tornare in Giappone, si recò con la sua famiglia alla stazione e sopra al treno, continuò a firmare visti, lanciandoli dal finestrino. Una storia che già qui merita di essere raccontata.

A volte però certe storie superano la fantasia e diventano reali. Come quell’abbraccio fra Chiune Sugihara e Yoshua Nishri, uno degli ebrei salvati dalla barbarie nazista. Era una mattina del 1968 quando qualcuno telefonò a Sugihara dall’ambasciata israeliana di Tokyo, dicendo di voler incontrare la persona che era all’altro capo della cornetta del telefono. Sugihara, che dal 1947 non faceva più parte corpo diplomatico giapponese, non aveva idea di chi si sarebbe trovato davanti.

“Non ho mai dimenticato quello che hai fatto. Finalmente ti ho trovato”, disse Yoshua Nishri a Chiune Sugihara che alla domanda “come posso sdebitarmi con te?”  indicò il figlio Nobuki: “Vorrei che studiasse in un’università israeliana”. Tempo una settimana e il più piccolo di casa Sugihara ricevette una borsa di studio e i biglietti aerei per Tel Aviv. Da quel momento una storia dimenticata venne resa pubblica. Nel 1970 tutta la famiglia andò in visita in Israele, accolta dal governo. Un anno prima della sua morte nel 1986,  l’Ente israeliano per la Memoria della Shoah insignì del riconoscimento di Giusto tra le nazioni Chiune Sugihara, unico giapponese ad avere il suo nome inciso nel Giardino dei Giusti del museo Yad Vashem di Gerusalemme. Quando gli chiedevano il motivo per cui avesse salvato tutti quegli ebrei, Sugihara rispondeva: “Erano esseri umani, e avevano bisogno di aiuto. Potevo disobbedire al mio governo, ma non potevo disobbedire a Dio”.

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