Arthur Bloch, la storia di un ebreo fatto a pezzi e gettato in un lago diventa un film

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David Spagnoletto
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Arthur Bloch, la storia di un ebreo fatto a pezzi e gettato in un lago diventa un film

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Un piccolo paese che fatica a riconoscere un gesto atroce commesso da persone appartenenti alla propria comunità. La verità si può nascondere, non accettare, ma è lì e prima poi torna. Sempre. Come nel caso della barbarie subita da un ebreo di Berna durante la Seconda Guerra Mondiale. Siamo nell’aprile 1942 in Svizzera, dove le folli idee naziste trovano terreno fertile nei disagi sociali degli abitanti di Payerne. Durante la fiera del bestiame della cittadina elvetica, il mercante Arthur Bloch viene attirato in una stalla dal garagista Fernand Ischi e quattro dei suoi scagnozzi: lo uccidono, tagliano il suo corpo a pezzi, lo nascondono nei bidoni del latte e lo gettano in un lago. Un anno dopo i cinque massacratori vengono condannati e i loro concittadini preferiscono dimenticare piuttosto che riflette su quanto successo.

La vicenda, però, è tutt’altro che storia vecchia e continua a suscitare indignazione. Nel 1977 un’inchiesta giornalistica della televisione nazionale dà voce ad alcuni dei protagonisti, portando alla ribalta il caso, che nel 2009 viene ripreso nel libro “Un ebreo come esempio” di Jacques Chessez, all’epoca dei fatti bambino di otto anni che giocava assieme alla figlia di Ischi per le strade di Payerne. Chessez, che muore lo stesso anno, viene accusato di “rivangare inutilmente il passato” da tutta la comunità, sindaco e archivista comunale inclusi. Durante il carnevale locale il suo nome viene addirittura associato alle SS. Pochi giorni fa un film sull’assassinio di Arthur Bloch è stato presentato in prima mondiale al Festival di Locarno. “Un ebreo come esempio”, nome omonimo al libro, è un libero adattamento di una storia messa sotto la polvere per troppo tempo.

Jacob Berger, il regista della pellicola, prodotta da Ruth Waldburger, ha avuto il coraggio di portare sul grande schermo una delle tante pagine oscure del guerra. “Chessez non era altro che un messaggero, ma è stato trattato peggio degli assassini. È sintomatico di quanto la Svizzera fatichi, a volte, a fare i conti col proprio passato”, afferma il cineasta, che ha sentito la necessità di affrontare l’argomento:

Di fronte a un avvenimento traumatizzante, ci sono due attitudini possibili: dimenticare o parlarne. La Svizzera sceglie spesso di dimenticare. Probabilmente è anche una forma di protezione identitaria: in un paese con lingue, culture e religioni diverse, affinché le persone riescano a capirsi e a vivere assieme, a volte si preferisce chiudere gli occhi di fronte alle proprie debolezze.

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