La vera identità di Woman in Gold

Al cinema un coinvolgente viaggio nella storia e nella memoria di un'anziana ebrea austriaca

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Elena LattesBlogger, collabora con diverse testate tra le quali Agenzia Radicale e Ebraismo e Dintorni
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Cultura

La vera identità di Woman in Gold

Al cinema un coinvolgente viaggio nella storia e nella memoria di un'anziana ebrea austriaca

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Elena LattesBlogger, collabora con diverse testate tra le quali Agenzia Radicale e Ebraismo e Dintorni

woman in gold

Per un momento ho temuto che le persone intorno a me fossero portate a rispolverare i soliti atavici pregiudizi: “Ah vedi questi ebrei, sono avidi ed egoisti, attaccati soltanto ai soldi e alle cose preziose’”. E invece no, non è così, questa considerazione è durata solo un momento, perché subito dopo mi sono ricreduta. Ne ho anche avuto la conferma alla fine, quando ho visto uomini di una certa età palesemente commossi.
Ma andiamo per ordine. Sto parlando del film “Woman in gold” di Simon Curtis con la pluripremiata Helen Mirren e Ryan Reynolds nelle sale italiane dal 15 ottobre.
Siamo nella California del 1998, Maria Altman è una signora ottuagenaria, ma ancora in piena forma, che trova tra gli effetti della sorella più grande appena deceduta, alcuni documenti comprovanti la proprietà familiare di un prezioso quadro razziato dai nazisti e ora esposto nel Museo Belvedere di Vienna.
Si tratta del ritratto di Klimt ad Adele Bloch, zia di Maria, morta prematuramente di meningite nel 1925 e rinominato dai gerarchi nazisti “La dama in oro” al fine di cancellare l’identità ebraica del soggetto. Maria chiede aiuto al figlio di un’amica, giovane avvocato, di assisterla legalmente. Devono andare in Austria, ma lei non vuole, troppo dolore e forse anche (ingiustificati, ma comprensibilissimi) sensi di colpa. Il suo legale riesce a convincerla e insieme affronteranno un percorso lungo e irto di ostacoli.

La storia, che ha dato il via ad una lunga serie di processi intentati contro il governo austriaco, è realmente accaduta e il film la racconta fedelmente, alternando il presente con il passato attraverso i ricordi in flashback della protagonista. Il cast dimostra una grande sensibilità e riesce a comunicare al grande pubblico le forti emozioni provate dai protagonisti. Si evince chiaramente che il tentativo di recuperare i beni non è dovuto a cupidigia o ad un vago desiderio di vendetta, ma alla ricerca di una giustizia, alla volontà di non dimenticare i propri affetti, di mettere davanti alle proprie responsabilità chi vorrebbe rimuovere, edulcorare o scaricare su altri la partecipazione attiva dell’Austria al nazismo. Quel quadro e altri beni preziosi fanno parte della storia e dell’identità personale e familiare della protagonista, ottenerne la restituzione è un modo perché queste non vengano definitivamente cancellate da un negazionismo subdolo, ammantato di una sottile patina di amor patrio e interesse nazionale. Inoltre, attraverso la progressiva dolorosissima riconnessione col passato Maria dimostra una grande determinazione a trasmettere ai giovani la memoria del genocidio e non solo delle tragedie più indicibili come i campi di sterminio, le deportazioni, i pogrom e le stragi collettive, ma anche di quelle relativamente meno drammatiche, almeno in apparenza, come la violenta spoliazione, le progressive umiliazioni, il calpestamento della dignità e la cancellazione anche della più minuscola briciola di umanità.

Accanto a lei l’avvocato, forse un po’ imbranato ma intelligente, armato di buona volontà e fiducioso, che inizialmente intraprende le azioni legali perché attratto dalla curiosità e dalla speranza di un considerevole guadagno che gli permetta una rimonta nel lavoro e una migliore sistemazione per la propria giovanissima famiglia, ma che, attraverso il viaggio sia geografico che temporale, conquisterà progressivamente una maggiore consapevolezza del valore della giustizia, della propria identità e soprattutto del doloroso passato che riguarda analogamente la sua famiglia, dato che i suoi bisnonni, anch’essi ebrei austriaci, furono deportati e assassinati nei campi di sterminio.

Il continuo interagire e confronto talvolta piccato da pungente ironia, tra i due protagonisti rappresenta egregiamente il dialogo intenso che dovrebbe esserci tra la generazione di chi ha vissuto e quella di chi sta prendendo il testimone. Un rapporto di apparente incompatibili divergenze generazionali che finisce in una relazione di complicità non solo professionale, ma anche intellettuale e soprattutto emotiva, spirituale e di alti valori morali.

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