Il ministro della propaganda nazista Joseph Goebbels sosteneva che una bugia ripetuta all’infinito finisce per diventare verità. Oggi, in un’epoca in cui — almeno in Europa e nel cosiddetto mondo “occidentale” — è possibile accedere facilmente a qualsiasi fonte di informazione, la riproposizione delle menzogne antisemite ha dovuto compiere un passo ulteriore per attecchire nelle masse.
Il meccanismo è più o meno questo: prima si diffonde una notizia falsa come veritiera, avvalorandola con filmati ambigui, immagini contraddittorie o contenuti generati dall’intelligenza artificiale; poi, una volta avvenuto il debunking, lo si smonta concentrandosi su alcuni dettagli e sorvolando su altri, omettendo così i dubbi e le incongruenze che non possono essere chiarite. Quando questo non basta, si ricorre a presunti testimoni diretti di cui non si conoscono le generalità.
In questo modo, ogni evento rimane sospeso in un limbo (per chi non si accontenta delle dichiarazioni ufficiali): non si può sapere con certezza se una notizia sia davvero falsa o autentica, ma nel frattempo l’immagine di Israele viene progressivamente infangata, mentre si consolida l’idea che tutti i palestinesi siano soltanto vittime; e unicamente di Israele, ma mai di Hamas. Così la razionalità viene sopita da un’emotività empatica che alimenta la confusione.
Un altro elemento da sottolineare nella propaganda anti-israeliana degli ultimi due anni è che essa ha concentrato la propria attenzione quasi esclusivamente su tre categorie di vittime (o presunte tali): i bambini, i giornalisti e il personale sanitario — come se nella Striscia di Gaza non vivessero barbieri, fruttivendoli, spazzini, idraulici o adulti che svolgono i mestieri più comuni. Quante volte, infatti, abbiamo sentito affermare che Israele colpisce «i bambini in fila per il cibo» o «i reporter e i corrispondenti»?
Uno dei casi più eclatanti è quello di una dottoressa la cui famiglia sarebbe stata completamente distrutta da un bombardamento, dal quale sarebbe sopravvissuto un solo figlio. Sono circolate centinaia di immagini false o manipolate e testimonianze di presunti medici italiani che avrebbero preso in cura il bambino ferito — di cui, tuttavia, non si è saputo più nulla.
Un altro episodio, ancora più discusso, è quello di Bayan Abu Sultan, divenuta una vera e propria icona. Il racconto del suo ferimento durante un bombardamento israeliano al «Al-Baqa Café» di Gaza, il 30 giugno 2025, ha suscitato un acceso dibattito: le riprese erano autentiche o si trattava di una messinscena costruita per suscitare indignazione globale?
Secondo il Committee to Protect Journalists (CPJ), la Sultan sarebbe stata colpita da schegge al torace e alla testa. Le immagini che la ritraggono con il volto e i vestiti insanguinati sono state ampiamente diffuse.
Poco dopo, tuttavia, sono emerse contestazioni. Alcuni media italiani avevano inizialmente sostenuto che si trattasse di un fotomontaggio — in particolare il quotidiano Libero aveva scritto che la giovane si stava facendo truccare in vista di una messa in scena tra le macerie dell’ospedale. Dall’altra parte, un noto smascheratore di bufale ha dimostrato invece che le riprese sono autentiche e sono state diffuse nella sequenza corretta.
Sia i sostenitori della falsità dell’episodio sia quelli della sua autenticità si sono tuttavia concentrati soltanto sull’ordine dei fotogrammi, tralasciando altri dettagli significativi. Nel video, mentre si pulisce il viso dal sangue, a un certo punto la giornalista appare con un sorriso sereno: un’espressione difficilmente compatibile con quella di chi è appena sopravvissuto a un bombardamento in cui per di più avrebbe perso amici e colleghi. Anche due delle donne che la assistono guardano verso la telecamera e sorridono; un’altra si sistema l’hijab con calma come se l’unica preoccupazione fosse quella di apparire ordinata davanti alle telecamere.
Nel video che la riprende mentre cammina sanguinante tra le macerie del bar, le persone attorno sembrano posare per i fotografi: alcuni guardano verso l’obiettivo, altri camminano lentamente, nessuno sembra occupato a soccorrerla (possibile che una ragazza colpita alla testa e al torace non riceva alcun tipo di assistenza o attenzione?) o ad aiutare eventuali altri feriti — che, peraltro, non si vedono. Le scene appaiono statiche, e la protagonista è l’unica sporca di sangue, in una posa melodrammatica, con la mano sinistra appoggiata sulla spalla destra. Nessuna traccia di polvere su di lei o sugli altri presenti. Fermando le immagini, si notano due fotogrammi in cui la giornalista è nella stessa identica posizione ma è contornata da persone diverse: in entrambi non si vede alcun’ espressione sconvolta, nessun soccorritore, un giovane è perfino con le mani sui fianchi. È davvero questo lo scenario di un bombardamento appena avvenuto con decine di vittime?
In seguito, uno dei giornalisti che aveva espresso dubbi sull’autenticità del ferimento ha subito pesanti attacchi sui social, fra i quali quello che segue è uno dei più “gentili”:
«Il figlio di put…nate che ha scritto questo articolo, Zebuloni, meriterebbe la crocifissione a testa in giù. E i figli di put…nate del giornale su cui scrive meritano frustate col fuoco.»
È lecito chiedersi se chi ha cercato di verificarne l’autenticità non abbia temuto ritorsioni. D’altra parte, in alcuni ambienti radicali legati alla propaganda pro-palestinese — o più precisamente pro-Hamas — la violenza verbale e la delegittimazione personale sono strumenti frequenti di intimidazione e pressione.

