La strategia iraniana colpevomente sottovalutata dall’Occidente

Una crisi grave e importantissima, che non è seguita con sufficiente attenzione

Ugo Volli
Ugo Volli
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Medio Oriente

La strategia iraniana colpevomente sottovalutata dall’Occidente

Una crisi grave e importantissima, che non è seguita con sufficiente attenzione

Medio Oriente
Ugo Volli
Ugo Volli

La strategia espansionista dell’Iran in Medio Oriente

Iran, USA e Medio Oriente. Pochi fanno caso a quel che accade in Medio Oriente salvo che Israele sia coinvolto, possibilmente nella posizione dell’imputato. Anche se il rischio di una guerra è abbastanza alto, come in questi giorni. Le notizie vengono date dai giornali, anche se senza troppo rilievo, ma è difficile che il pubblicole metta assieme e ne tragga le conseguenze.

La storia è questa. L’Iran aveva accettato il trattato sulla limitazione del suo armamento atomico, offerto da Obama, dall’Unione Europea, da Russia e Cina, con la ragionevole convinzione di trarne solo vantaggi. In cambio della riduzione provvisoria e poco verificabile dell’arricchimento dell’uranio, parte essenziale dell’armamento nucleare che l’Iran sta perseguendo da vent’anni, le maggiori potenze economiche e militari del mondo gli offrivano l’annullamento delle sanzioni causate proprio dal riarmo e dal comportamento aggressivo, offrendogli riparazioni e lauti affari. Nelle trattative si era accennato all’imperialismo iraniano, al suo programma missilistico, alle minacce che distribuiva contro i suoi nemici. Ma nulla di questo era finito nel trattato, e anzi l’Iran aveva tratto dalla firma dell’accordo la convinzione di essere legittimato a esercitare un’egemonia regionale sul Medio Oriente. Ai danni naturalmente di Israele e dei paesi sunniti che rifiutavano il dominio dell’Iran, come Egitto e Arabia.

Dato che, per una “furbata” procedurale di Obama, l’accordo non era mai stato sottoposto alla ratifica del Senato come la costituzione americana richiede per i trattati internazionali, Trump è potuto uscirne facilmente, giudicandolo pessimo: ha restaurato le sanzioni all’Iran e ha costretto gli europei a obbedire. Trump non vuole che le truppe americane restino in Medio Oriente e non vuole la guerra. Pensa però che sia necessario costringere l’Iran a rinunciare al suo imperialismo, che nel frattempo si è molto esteso, anche grazie alla protezione della Russia: ha conquistato in pratica Siria e Libano, minaccia Israele (a 1000 km dalla sua frontiera), ha provocato la guerra civile in Yemen (anch’esso molto lontano dai suoi confini). Il piano iraniano è molto lucido e preveggente. Cerca di stabilire il proprio controllo sui due stretti che chiudono il mar Rosso e il Golfo persico, essenziali per il commercio petrolifero mondiale e anche per i collegamenti dell’Europa, di Israele e dell’Egitto con l’Oriente; ha costruito un collegamento terrestre fra il suo territorio e il Mediterraneo, che usa per portare il suo esercito vicino a Israele (e in prospettiva all’Europa), ha costruito una solida alleanza con la Russia e con la Corea del Nord, ha buoni legami con la Cina e con la Turchia, ha trovato nel Qatar un alleato nel mondo sunnita, costruisce sistemi missilistici che potranno portare le armi atomiche (quando verranno) in mezzo mondo, ha reso suoi mercenari i principali gruppi terroristici di Gaza e del Libano, ha asservito i dirigenti Siriani e Iracheni, arma con molto anticipo basi militari in tutto il Medio Oriente. In questa politica imperialista spende somme gigantesche, anche se l’economia iraniana è in grave difficoltà.

Di fronte a questa situazione e al crescendo di provocazioni dell’Iran contro l’America e i suoi alleati, Trump non poteva lasciar perdere, continuare il ritiro annunciato dalla Siria e dall’Iraq senza fare nulla. Il costo sarebbe stato la conquista iraniana di buona parte del Medio Oriente (che anche se il petrolio arriva anche da fonti americane sicure, resta uno snodo strategico importantissima), con il conseguente isolamento dell’Europa e lo scoppio di una guerra difensiva da parte di Israele, Egitto, Arabia. Ma sarebbe stata messa in crisi la credibilità americana nel mondo, già duramente messa alla prova dagli errori di Obama e dei suoi predecessori. D’altro canto anche la teocrazia iraniana non può rinunciare senza gravissimi problemi al suo progetto imperialista: il costo per gli ayatollah sarebbe probabilmente una rivolta generalizzata, la resa dei conti di quarant’anni di politica estremista, di oppressione politica e religiosa, di ladrocinio generalizzato. Per loro, al di là di qualunque credenza religiosa, è questione di vita o di morte.

Questo è il gioco difficilissimo e pericolosissimo che si gioca in questi giorni soprattutto nel Golfo Persico, ma che coinvolge almeno in parte Israele, che da anni svolge una guerra sempre più aperta contro la costruzione di una forza militare iraniana ai propri confini e che ancora nei giorni scorsi ha bombardato impianti e depositi militari iraniani in Siria. Non per divertimento, naturalmente e neppure perché Israele abbia mire di potere sulla Siria. Ma solo perché per Israele è questione vitale impedire l’accumulo di armi e di truppe nemiche ai propri confini, pronte a tentare l’invasioni al primo momento che giudicassero opportuno.

Il mondo farebbe bene a guardare con attenzione a questa situazione e ad appoggiare il presidente Trump che si sta prendendo il rischio di domare l’equivalente contemporaneo della Germania nazista.

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