L’imbattibilità dello Stato Islamico dipende dalla determinazione dei suoi nemici

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Mario Del MonteEditor
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Medio Oriente

L’imbattibilità dello Stato Islamico dipende dalla determinazione dei suoi nemici

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Centinaia di missili sono stati lanciati ogni settimana sui territori controllati dallo Stato Islamico da quando, nove mesi fa, è stata creata una Coalizione Internazionale con l’obiettivo di fermare l’avanzata del gruppo islamista sunnita. Incredibilmente però i tagliagole sono ancora lì e sembrano ancora più forti e stabili rispetto a un anno fa.

Ora il Califfato controlla Ramadi, Palmyra e tutta la provincia di al-Anbar, una zona strategica della Siria che confina con Giordania e Arabia Saudita e che dista pochi chilometri dalla capitale Damasco, ultima roccaforte del regime del Presidente Bashar al-Assad. Si tratta del più grande risultato sotto il punto di vista militare dalla conquista di Mosul avvenuta la scorsa estate. Come è possibile che l’ISIS non si sia indebolito sotto i colpi della Coalizione Internazionale? Questi paesi che hanno dichiarato guerra al terrore sono davvero determinati a far sparire lo Stato Islamico?

Ciò che gli americani e i loro alleati non sembrano aver capito è che per rendere efficaci i raid aerei è necessaria un’operazione di terra che privi gli estremisti islamici di alcuni avamposti decisivi. La mera uccisione di comandanti e responsabili militari dello Stato Islamico non danneggia l’organizzazione terroristica visto che il suo sofisticato sistema di reclutamento gli permette di sostituire quasi immediatamente qualsiasi membro perso. Inoltre due aspetti chiave sono rimasti finora intoccati: il flusso di volontari provenienti dal confine con la Turchia e l’impressionante macchina di propaganda del Califfato.

Sotto il punto di vista economico, per tagliare i fondi alle milizie di al-Baghdadi bisognerebbe privarli dalle risorse petrolifere e i raid aerei, sebbene abbiano danneggiato le infrastrutture, non garantiscono che l’ISIS non continui a vendere petrolio sul mercato nero. Per fermare i finanziamenti all’organizzazione terroristica è quindi necessario anche individuare tutti quegli attori internazionali che gli trasferiscono fondi in cambio di petrolio e buon mercato.

Ad aggravare il tutto c’è il conflitto settario in corso nel mondo musulmano. In Siria e in Iraq a combattere lo Stato Islamico ci sono vari gruppi di milizie sciite come Hezbollah, tutte profondamente odiate dalla popolazione locale per le vendette e gli abusi sulla maggioranza sunnita che si ritrova così nella scomoda posizione di non poter parteggiare per nessuno negli scontri. Un problema che hanno anche gli Stati Uniti, impossibilitati a chiedere l’aiuto delle milizie sciite direttamente controllate dall’Iran perché non interessati a fornire nuove concessioni alla Repubblica Islamica sul fronte del programma nucleare. I vecchi alleati come l’Arabia Saudita e la Turchia sono però frustrati dalle scelte di politica estera del Presidente Obama e si sono dimostrati poco collaborativi (soprattutto la Turchia che continua a permettere ai foreign fighters di riversarsi nel territorio siriano) rendendo la situazione ancora più complicata.

Gli stessi sauditi che hanno dato prova delle loro capacità in Yemen non hanno utilizzato la stessa potenza di fuoco contro lo Stato Islamico. Questa poca determinazione dimostra come per gli Stati del Golfo il vero incubo è rappresentato dalla possibilità di vedere al potere gli iraniani, o le milizie da loro controllate, nei territori dove oggi c’è l’ISIS. Nessuno lo ammetterà ma per molti Stati dell’area è molto più conveniente la presenza del Califfato, un ostacolo temporaneo all’avanzata delle milizie sciite nella speranza che i due rivali si distruggano, o almeno indeboliscano, a vicenda.

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