Qual è la vera posta in gioco nella politica israeliana oggi

Ugo Volli
Ugo Volli
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Editoriali

Qual è la vera posta in gioco nella politica israeliana oggi

Editoriali
Ugo Volli
Ugo Volli

Nessuno, neanche i protagonisti, sa al momento in cui scrivo come si concluderà la sfida politica in Israele, se con la formazione di un governo di unità nazionale o con le quarte elezioni. Ci sono stati tanti colpi di scena finora che altri ancora sono certamente possibili. E’ importante comunque capire che cos’è in gioco. Vi sono quattro sfondi possibili (o come dicono i politologi americani, quattro frames, cornici) in cui inquadrare questo tema. Il primo, il più evidente, è la vicenda dell’epidemia: si tratta di costruire un governo di unità nazionale per gestire l’emergenza.

Questo però non è più il problema principale in Israele. I dati mostrano che il governo attuale, in proroga ormai da un anno, ha trattato il problema al meglio: Israele è stato ripetutamente classificato da enti internazionali come il miglior paese da questo punto di vista, i sondaggi mostrano una generale soddisfazione e i dati mostrano un numero di contagiati e di morti nettamente più basso anche dei migliori paesi europei. Non vi sono stati gli errori tragici e le pagliacciate giuridiche e comunicative che abbiamo dovuto subire in Italia, e Netanyahu sta lavorando ormai concretamente alla fase due. Si tratta solo di andare avanti, non c’è bisogno di un governo nuovo per questo.

Il secondo frame è quello della “corruzione”, che viene agitato da Lapid, Ya’alon. Lieberman e da quel che resta del partito “anything but Bibi” (qualunque cosa salvo Bibi”). E’ un quadro in cui la maggior parte degli israeliani non credono, perché le accuse contro Netanyahu sono tirate per i capelli: a parte qualche omaggio di vini e sigari da parte di vecchi amici, che certo non decidono una politica, Bibi è accusato di aver discusso con un paio di editori a quali condizioni politiche i loro media avrebbero potuto attenuare l’opposizione al governo. Questo tipo di consultazioni sono comuni in tutte le democrazie, si chiamano costruzione del consenso e non corruzione. E’ interessante che la magistratura abbia indagato Netanyahu e non i suoi avversari fra cui Lapid e Lieberman, che hanno cercato davvero di far votare alla Knesset una legge per favorire uno di questi editori. Ormai l’intervento giudiziario sulla politica è una tendenza comune a tutto il mondo democratico,  ma è sempre più avvertito come una mossa politica, che con la giustizia ha poco da fare, come accade anche in Italia.

Il terzo sfondo è quello del funzionamento del sistema politico. Se non si fa il governo, Israele arriva alle quarte elezioni in un anno e mezzo. Non si tratta né di una spesa straordinaria, come dicono alcuni, né di un fastidio terribile. E’ chiaro che il sistema politico israeliano privilegia la rappresentanza sulla governabilità, almeno nella fase di scelta del governo (che una volta costituito però ha molti più poteri del nostro). Ma questo deriva da una frammentazione vera della società israeliana, che si divide su linee permanenti (alcuni dicono: tribali), fra arabi ed ebrei, osservanti e laici, di origine europea e magari specificamente russa o orientale, ecc. ecc. Un sistema maggioritario cancellerebbe la rappresentanza di queste realtà, ma non la loro sostanza. E il problema è dunque di mettere d’accordo una maggioranza su una politica sostanziale.

Qui emerge il quarto (ma in realtà il primo) problema: che politica. E’ vero che gli anti-Bibi sono un a federazione di gruppi diversi e poco coordinati, come è emerso finalmente con la rottura dei Bianchi-azzurri. Ma la questione fondamentale per Israele è la sicurezza rispetto alle minacce alla sua esistenza. Ci sono due politiche che si confrontano su questo tema, dalla fine della generazione dei fondatori: quella cui possiamo dare il nome di Peres, almeno del Peres che emerge come leadcer negli anni Ottanta: essa pensa di ottenere la pace con accordi con la leadership palestinese, concedendo loro legittimità internazionale, territori, armi, rappresentanza politica e spera con questo di spegnere l’ostilità del mondo musulmano, praticando anche con questo una politica di disarmo e fiducia, magari con garanzie internazionali.

E’ la politica che ha portato agli accordi di Oslo e ai tentativi di risolvere il conflitto cedendo Giudea e Samaria. Erano idee suggestive che conquistarono il cuore della maggioranza di Israele trent’anni fa. Peccato che non abbiano mai funzionato, per la semplice ragione che palestinisti e islamisti non desiderano davvero la costruzione di uno stato palestinese ma la distruzione di quell’abominio politico e religioso che è ai loro occhi uno stato degli ebrei in una regione conquistata dall’Islam. Dall’altro lato c’è una politica che crede che Israele debba sempre essere capace di difendersi militarmente, avere una deterrenza tale da impedire gli attacchi o reprimerli, trovare accordi con i paesi arabi sulla base di interessi comuni, contare su se stessi e non illudersi sulla protezione internazionale. E’ la politica portata avanti da Netanyahu negli ultimi vent’anni con grande successo, ma anche con scorno dei palestinisti, dei loro amici (o degli “idealisti”) della sinistra israeliana, dell’Unione Europea e dei politici progressisti di mezzo mondo.

Ora è questa politica che si vuole distruggere. Lo vuole naturalmente la lista araba alla Knesset, che è legata a filo doppio ai movimenti palestinisti e senza di cui non c’è maggioranza contro Netanyahu. Lo vuole l’intellighentsia di Tel Aviv, che si sente così legata alla sinistra internazionale da appoggiare con doni cospicui personali (un milione di dollari dal pubblicista di successo  Yuval Noah Harari) all’inefficente e filocinese Organizzazione Mondiale della Sanità solo perché Trump le ha tagliato i fondied è rappresentata dal partitino di Lapid. Lo vuole l’Unione Europea, che ha dettato direttamente a Gantz la sua posizione negoziale sull’applicazione del piano Trump sul medio  oriente, contando di avere il suo rappresentante al governo di unità nazionale, se si realizza

Lo vuole anche, e questo è il paradosso supremo, lo stato maggiore dell’esercito israeliano, che ha avuto tre suoi ex capi nel partito anti-Bibi (Ya’alon, Askenazi, Gantz) e un quarto che ha provato a fare un suo partito nello stesso schieramento (Barak), più qualche ex responsabile dei servizi segreti che hanno preso posizione contro Netanyahu, pur senza candidarsi (Pardo, Dishkin). Che esso sia scettico sull’annessione dei territori strategici in conseguenza del piano Trump, che non creda alla possibilità di eliminare la minaccia di Hamas, è chiaro. Ma un articolo del Jerusalem Post, normalmente per nulla tenero col primo ministro  richiama un’altra ragione di dissenso.

Lo schieramento del vertice militare contro Netanyahu (a parte Barak, che allora stava con lui)  corrisponde a quello che a partire dal 2010 in poi si è opposto all’idea di un attacco preventivo alle istallazioni nucleari dell’Iran, prima che esso disponga della bomba atomica. Questa opposizione è stata espressa ai limiti dell’insubordinazione aperta. E’ chiaro che nei dieci anni che sono passati, anche grazie all’appoggio di Obama, l’Iran ha avuto il modo di diffondere e schermare i suoi laboratori atomici e che oggi è ancora più difficile fermarlo. Ma i tentativi di armamento nucleare degli ayatollah proseguono e il momento decisivo potrebbe arriv are fra meno di un anno. Che scelte farà allora Israele? Netanyahu considera un Iran armato dell’atomica il peggior pericolo esistenziale per Israele dai tempi della guerra del Kippur; i capi militari, compreso a quanto pare quello attuale, Kohavi, pensano piuttosto a garanzie internazionali, insomma sono sulla linea di Obama piuttosto che su quella  di Trump.

La distanza fra lo schieramento politico diretto da Netanyahu e quello allestito da Gantz (attualmente in frantumi sul piano della politica parlamentare, ma non forse nelle sue basi di potere) è insomma sostanziale. Il braccio di ferro si fa su questi temi, sull’Iran, sul piano di Trump e l’estensione della legge israeliana agli insediamenti, sul contrasto alle pretese del sistema giudiziario e in genere dello “stato profondo” di controllare la politica; non sugli altri frames, che servono solo a distrarre un elettorato, che almeno per quanto riguarda quello ebraico è in grande maggioranza con Bibi per quanto riguarda la sostanza. Vedremo come gli arbitri della vicenda (la magistratura, la presidenza della repubblica), che purtroppo non sono affatto neutrali come si è visto negli ultimi colpi di scena, riusciranno a condizionare la partita.

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