Perché non si fa (ancora) il governo in Israele

Ugo Volli
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Israele

Perché non si fa (ancora) il governo in Israele

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Ugo Volli
Ugo Volli

Ormai è passata una decina di giorni dall’accordo stretto a sorpresa ma dettagliatissimo fra Netanyahu e Gantz per realizzare un governo di unità nazionale, ma il nuovo ministero non è alle viste. Fra pochi giorni scadrà il termine per depositare la firma della maggioranza dei parlamentari della Knesset alla designazione del nuovo primo ministro (ancora Netanyahu secondo gli accordi), ma neppure questa raccolta è stata iniziata. E’ probabile che avvenga all’ultimo momento, dopo di che Netanyahu avrà due settimane per comporre il governo, arrivando vicino alla festa di Shavuot.

Che il sistema politico israeliano sia complicato e macchinoso, ormai lo sanno tutti: ci sono state tre elezioni in un anno e solo una serie di inaspettati colpi di scena potrebbe aver evitato la quarta. Ciò è dovuto a una macchina elettorale organizzata secondo il sistema proporzionale quasi puro, che consente l’accesso alla Knesset di una dozzina di partiti; ma questo sistema a sua volta è la conseguenza di una società estremamente pluralistica, in cui convivono tribù abbastanza impermeabili fra loro: la minoranza araba e quella religiosa tradizionalista (i cosiddetti “charedim”), quella internazionalista e laicista di Tel Aviv e quella religiosa ma molto sionista che costituisce la base dei partiti di destra e di parte dei Likud, una destra più tradizionale e urbana, la tribù dei russi che vota per Lieberman, i drusi e così via. Tutti questi gruppi esigono rappresentanza e fanno fatica a trovare una sintesi, anche se è chiaro che l’elettorato israeliano è assai più di destra che di sinistra e non crede alle proposte che hanno caratterizzato il filone laburista dopo l’epoca storica di Ben Gurion e di Golda Meir, cioè il tentativo di fare la pace coi terroristi concedendo loro territori e riconoscimenti. Tanto è vero che spesso un’agenda di sinistra si è travestita da centrista o magari di destra, come è accaduto con il partito Bianco Azzurro, che si è rotto in due pezzi dopo la scelta di Gantz di fare un governo con Netanyahu.

Ma tale frammentazione non spiega del tutto la difficoltà di formare il governo, anche dopo questa svolta. Il fatto è che vi è ben altro sotto le questioni personali, come l’ostilità di buona parte del mondo politico per Netanyahu che, governando da “troppo” tempo e con ottimi risultati, ha frustrato le ambizioni di tutti coloro (tanti) che volevano e vogliono prenderne il posto. O come la distribuzione dei posti di governo, che questa volta si sono dilatati moltissimo per l’appetito del partito di Gantz (e dei suoi alleati laburisti), che pretendono con meno di 20 deputati di avere lo stesso numero di ministri della destra che ne ha quasi 60, e anzi di occupare tutti gli snodi importanti: esteri, difesa, giustizia ecc: una sistemazione che Netanyahu ha accettato per poter fare il governo, ma che certamente non rispetta i pesi politici ed elettorali delle forze in gioco e che quindi crea notevoli tensioni. E non lo spiega neppure l’interferenza del sistema giudiziario e in particolare della Corte Suprema, che dai nemici di Netanyahu è stata interpellata per rendere impossibile l’accordo, dichiarandolo inidoneo all’incarico oppure impedendo l’approvazione dei disegni di legge che servono a concretizzarlo.

C’è un problema più grosso e importante ed è la strada che deve prendere Israele. Oggi lo stato ebraico, guidato da Netanyahu anche in questi mesi di parentesi politica, è in un’ottima posizione: ha mostrato l’impotenza del terrorismo di Hamas, sia nella versione di massa delle “marce del ritorno”, sia nella versione missilistica, come pure degli assalti degli accoltellatori e investitori automobilistici solitari che vengono dai territori dell’Autorità Palestinese (anche se naturalmente i singoli atti di terrorismo, esaltati dalla scuola, dai media e dalla politica palestinista non sono affatto cessati). E’ riuscito a bloccare dopo i missili di Hamas anche i suoi tunnel e quelli di Hezbollah. Ha mostrato all’Iran e a Hezbollah che nonostante la protezione russa non sono in grado di costruire un apparato bellico efficiente in Siria. Insomma ha tenuto sotto controllo i pericoli. E poi ha stretto buoni rapporti con un pezzo importante del mondo arabo, ha l’appoggio di Trump e di molti paesi del mondo. L’economia è fiorita e ha retto anche l’urto dell’epidemia, che è stata controllata in Israele molto meglio dei principali paesi europei.

Insomma le cose vanno bene, ma come bisogna andare avanti? I nemici sono ancora lì, l’Iran nel pieno dell’epidemia continua al lavorare per rafforzarsi in Siria e soprattutto per allestire l’armamento nucleare che gli darebbe se non l’arma definitiva una deterrenza impossibile da superare, i palestinisti continuano a cercare di fare quel che possono per danneggiare Israele sul territorio e in tutte le sedi internazionali, l’ebraismo americano, il più influente e ricco del mondo, appoggia in maniera sempre più tragica posizioni antisraeliane, non è detto che un amico decisivo di Israele come Trump sia rieletto a novembre. Che fare? Le strade sono due. Proseguire nella “Realpolitik” di cui Netanyahu si è mostrato maestro negli ultimi dieci anni, facendo resistenza nei limiti del possibile ai nemici potenti come Obama (e come sarebbe Biden), cercando accordi parziali con possibili interlocutori più o meno simpatici nel mondo, da Putin ai governanti dell’Egitto e dell’Arabia e anche certi paesi europei, dialogando con nuovi amici come l’India e molti paesi africani; cercando di cogliere le opportunità che si aprono per guadagnare posizioni, indebolire i nemici, rafforzare Israele, magari minacciando di usare le armi se necessario. Oppure fermarsi, tornare alla vecchia politica inconcludente del dialogo infinito con i palestinisti, come vorrebbero l’Unione Europea e i democratici americani.

Il test più evidente di questo bivio sta nella possibilità di approfittare della situazione internazionale per aderire pienamente al piano di pace di Trump e annettere i maggiori insediamenti ebraici in Giudea e Samaria e alcune zone strategiche della valle del Giordano, o almeno estendere loro la legge civile israeliana, che è un passo intermedio verso l’annessione. Questo passo si può fare entro luglio e l’America ha già annunciato il suo consenso. Vorrebbe dire regolarizzare la posizione di oltre mezzo milione di israeliani, estendere le garanzie della legislazione civile anche ai non moltissimi arabi che non vivono già nei territori amministrati dall’Autorità Palestinese, senza toccare l’autonomia di quest’ultima. Vorrebbe dire anche prefigurare una situazione che è data per scontata in tutti gli abbozzi dei piani di pace. Un gesto che chiederebbe un certo coraggio morale, lo stesso del resto che ci è voluto nel 1981 a Menahem Begin per l’annessione del Golan.

Netanyahu è ben deciso a procedere su questa strada e l’ha inserita negli accordi di governo; ma Gantz e il suo compagno Azkenazi sono contrari: l’unione europea ha fatto appello a Gantz per impedirla e Askenazi ha detto che entrava al governo “per tenere il piede sul freno” e fare da terminale per tutti coloro che si oppongono: Unione Europea, Lega Araba, democratici americani, re di Giordania, Macron ecc. ecc. Vale la pena di leggere questo articolo, del miglior sito che esprime le posizioni filoarabe, per capire questo schieramento e i legami coi bianco-azzurri. Quelli che vorrebbero che Israele si incartasse di nuovo nella vecchia pantomima delle trattative e sprecasse un’occasione storica di realizzare un assetto sostenibile sul territorio, minacciano sfracelli. Ma l’avevano già fatto per il riconoscimento americano dello status di capitale per Gerusalemme, con lo spostamento dell’ambasciata, per la resistenza israeliana al terrorismo di massa a Gaza, e per tante altre occasioni; e nei fatti non è accaduto nulla, perché Netanyahu come in fonda anche Trump calcola bene le sue mosse e sa leggere lucidamente la realtà dei rapporti di forza.

Insomma il governo tarda a farsi (e ancora non è detto che si faccia davvero), perché i contrasti fra Netanyahu e Gantz sono reali, profondi e riguardano l’asse politico del paese. Sotto le esitazioni, i conflitti su dettagli, la sfiducia che si traduce in accordi formali di molte decine di pagine, bisogna leggere questa tensione. Si vedrà in fretta se Netanyahu, pagando ai bianco-azzurri un prezzo esagerato in termini di posizioni di governo e di turnazione alla guida del gabinetto, è riuscito a imporre la sua via per il futuro di Israele, o se il “freno” di Askenazi (che poi è quello di buona parte dello “stato profondo”, dei corpi separati della magistratura, dell’esercito e della cultura) riuscirà a bloccarlo nonostante la sua abilità politica e la sua lucidità.

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