Un accordo dimezzato

Il re di Giordania ci insegna perché in Medio Oriente non bisogna confondere gli accordi con la pace vera

Ugo Volli
Ugo Volli
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Israele, Medio Oriente

Un accordo dimezzato

Il re di Giordania ci insegna perché in Medio Oriente non bisogna confondere gli accordi con la pace vera

Israele, Medio Oriente
Ugo Volli
Ugo Volli

Giordania e Israele. Una piccola notizia uscita nei giorni scorsi e riportata con scarso rilievo sulla stampa internazionale (in Italia credo solo sul “Corriere” e “La Stampa”) merita una riflessione. Riporto qui parte dell’articolo della “Stampa”:

“Re Abdullah di Giordania ha annunciato che non rinnoverà parte del trattato di pace firmato con Israele nei 1994. I punti in questione sono due disposizioni annesse che cedevano per 25 anni allo Stato ebraico i villaggi di AlBaqoura, nel Nord della Valle del Giordano, e di Al-Ghumar, vicino al Golfo di Aqaba. […] La disdetta di Amman riguarda l’affitto (di 25 anni) di due aree agricole di confine tra Giordania e Israele: la prima (Baqura, in arabo, Naharaym in ebraico) si trova a Sud del Lago di Tiberiade, nel Nord. Proprio qui nel 1997 si consumò un feroce attentato ad opera di un soldato giordano che sparò su un gruppo di studentesse israeliane uccidendone sette. Fu lo stesso re Hussein (padre di Abdallah) a recarsi in Israele per porgere le proprie condoglianze ai familiari. La seconda area – alGhamr in arabo, Zofar in ebraico – si trova a Sud nel deserto del Neghev.”

Le due aree non hanno grande importanza strategica, sono due territori abbastanza piccoli, conquistati dall’esercito israeliano nel ‘67 al di là della delimitazione geografica che è stata presa come base del confine fra Israele e Giordania, per esempio per quanto riguarda la prima località al di là di un’ansa particolarmente profonda del Giordano. Erano territori coltivati e valorizzati da Israele e al momento dell’accordo di pace furono oggetto di un compromesso: per rispettare la linea geografica Israele rinunciò alla sovranità e in cambio la Giordania accetto di mantenere le piantagioni israeliane in cambio di un affitto. Il trattato ha una scadenza di 25 anni e Abdullah, sottoposto a una forte pressione da parte della parte più tradizionalista e dunque islamista della popolazione, da un lato, e dall’altro di una maggioranza che si identifica come “palestinese”, ha annunciato che non rinnoverà questa clausola.

Per Israele quel che conta è il trattato in sé, il secondo trattato di pace con un paese arabo dopo quello con l’Egitto e dunque il suo rinnovo nonostante l’orientamento massicciamente antisraeliano della popolazione giordana è una buona notizia, del resto non inaspettata, perché Israele ha bisogno certamente del regno hashemita per la propria sicurezza sul lungo confine orientale: se esso fosse infiltrato dai terroristi dell’Isis o da quelli controllati dall’Iran come in Libano e in Siria, la situazione diverrebbe molto preoccupante. Ma soprattutto la dinastia giordana ha bisogno di Israele che in molte occasioni l’ha protetta da colpi di stato e tentativi di eversione.

E però la cessazione dell’affitto delle due aree giordane costituisce un precedente importante e allarmante per due ragioni. La prima è che si dimostra che per quanto riguarda Israele gli accordi di pace, anche i più celebrati e apparentemente solidi, non reggono alla pressione islamista. Lo si era visto con gli accordi di Oslo, che l’Autorità Palestinese viola ogni giorno appoggiando il terrorismo.  Di nuovo questa fragilità era emersa durante il breve e sfortunato governo dell’Egitto da parte della Fratellanza Musulmana, quando il presidente d’allora, Morsi, aveva stracciato l’accordo per la fornitura di gas a Israele e fatto intendere che presto e volentieri avrebbe fatto altrettanto con la pace firmata da Sadat. E’ emerso di nuovo ora: non ci si può davvero fidare dell’interesse dei governi che  fanno accordi con Israele e allo stesso tempo incitano la popolazione all’odio con la scuola e i media. Alla fine questa pressione dovuta al lavaggio del cervello antisraeliano prevale anche sull’interesse geopolitico del paese.

La seconda ragione di inquietudine è questa. Coloro che elaborano piani di pace fra Israele e l’Autorità Palestinese spesso pensano di risolvere problemi controversi con una formula simile a quella usata con la Giordania, per esempio propongono di conciliare la pretesa della sovranità dei palestinisti su tutta la Giudea e Samaria con la vitale necessità di Israele di mantenere il controllo del confine sul Giordano e di alcuni punti dominanti delle montagne con un lungo affitto di queste aree cruciali. In teoria esse sarebbero assegnate agli arabi, ma in pratica e in cambio di compensazioni economiche sarebbero sotto il controllo israeliano. La scelta di Abdullah mostra che questa impostazione non funziona e anche nel caso migliore dura solo fino alla prima scadenza utile, dopo di che il problema si ripropone.

Un accordo di pace ai vertici non trasforma le masse arabe indottrinate in forze ragionevoli e desiderose di convivere. E un affitto non spegne le rivendicazioni, al contrario dà loro una ragione per riaccendersi. Insomma, anche se alla fine il trattato con la Giordania terrà, quel che esce da questa notizia è un ammonimento al realismo. Purtroppo la pace non è affatto vicina in Medio Oriente e può diventare concreta solo con un completo riorientamento dell’opinione pubblica araba, di cui per ora non si vedono le tracce.

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