Le elezioni che si terranno in Israele e quelle che non ci saranno nell’Autorità Palestinese

Ugo Volli
Ugo Volli
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Israele, Medio Oriente

Le elezioni che si terranno in Israele e quelle che non ci saranno nell’Autorità Palestinese

Israele, Medio Oriente
Ugo Volli
Ugo Volli

I leader della maggioranza di governo in Israele hanno preso atto della difficoltà di governare con un solo voto di vantaggio e hanno scelto le elezioni, che si terranno in aprile, qualche mese prima della scadenza naturale della legislatura. In realtà è stato Bibi Netanyahu, che finora aveva resistito alla richiesta di nuove elezioni, a fare la scelta. Abbandonato dall’ondivago Liberman, braccato da accuse politiche (tutti parlano di corruzione, ma di fatto la fattispecie imputata consisterebbe in un tentativo di scambio e uno fallito fra politiche favorevoli a editori e l’appoggio dei loro giornali alla linea politica del governo), preoccupato per gli annunci di un piano di pace di Trump che potrebbe non essere soddisfacente per Israele ma che gli sarebbe difficile respingere dopo la collaborazione recente, forse rassicurato da sondaggi positivi, Bibi ha deciso di tornare alle fonti della legittimità democratica di ogni governo parlamentare governo, cioè alle urne, fiducioso, come ha detto, che la sua coalizione riceverà un nuovo mandato.

Chi critica la democrazia israeliana dovrebbe prendere atto di questa scelta e confrontarla, per esempio con quanto accade nell’Autorità Palestinese. Il suo presidente, Mahmoud Abbas, che si fa chiamare col “nome di battaglia” (il che è già tutto un programma) di Abu Mazen, fu eletto presidente dell’Autorità Palestinese il 15 gennaio 2005, per un mandato di quattro anni, che è scaduto ovviamente il 14 gennaio del 2009. Mancano cioè pochissimi giorni al decimo anniversario di un’usurpazione del potere che non ha uguali nella storia delle dittature: Hitler e Stalin, Mao e Castro, Mussolini e Franco hanno sempre avuto cura di mantenere l’ipocrisia di un’aderenza alle regole del loro regime. L’allergia alle elezioni nel sistema politico palestinista non si limita ad Abbas; il “Consiglio nazionale Palestinese”, che dovrebbe svolgere le funzioni del parlamento, è stato eletto una volta sola, il 25 gennaio del 2006. Andava rinnovato nel 2010, ma non si è più riunito dopo la guerra civile fra Hamas e Fatah nel 2006-2007. Abbas ha dichiarato negli ultimi giorni di volerlo sciogliere, sulla base di una sentenza di una corte che gli impone di tenere nuove elezioni.

Ma non è affatto detto che lo faccia, anche perché i sondaggi danno Hamas in vantaggio su Fatah e il candidato del primo movimento, Ismail Haniyeh, ben davanti a lui in eventuali elezioni presidenziali. E del vecchio organizzatore dell’attentato di Monaco e di tanto altro terrorismo, tirapiedi di Arafat, negazionista della Shoah, a suo tempo spia dei servizi segreti sovietici, tutto si può dire salvo che manchi di furbizia personale e di istinto di sopravvivenza. Dunque non consegnerà il suo ruolo e anche la sua vita a un nemico come Hamas, che ha dimostrato di non avere né pietà né scrupoli ad ammazzare avversari politici, anche se dicono di far parte dello stesso popolo.

Del resto neppure a Israele conviene lasciare i territori dell’Autorità Palestinese in mano ai terroristi aperti di Hamas. Senza la vigilanza costante dei servizi e dell’esercito, da tempo il movimento islamico avrebbe preso il potere con la forza, come fece a Gaza nel 2007. Abbas lo sa benissimo e per questo, nonostante i ripetuti proclami, non si sogna di interrompere la collaborazione di sicurezza con Israele contro Hamas: è la sua assicurazione sulla vita. E quando arringa i suoi fedeli sulla congiura cosmica contro di lui capitanata da Trump, Israele e Hamas, non fa altro che un vecchio esercizio retorico di scaricabarile per il suo fallimento e l’irrilevanza politica del palestinismo. Magari ci crede anche un po’, ma solo perché il vittimismo sempre presente nella sua politica si mescola all’incontinenza verbale senile.

D’altro canto Israele non ha neppure interesse a consegnargli Gaza, magari pagandone la conquista con un alto prezzo di vite umane. Chi dice che l’esercito israeliano dovrebbe sconfiggere Hamas e consegnare la striscia all’autorità palestinese (un’idea avanzata solo per propaganda dall’estrema sinistra israeliana, che è stata fatta propria, chissà perché, da certi strateghi da caffè nella diaspora), non capisce nulla della situazione di Israele, che ha evidente interesse a non permettere attacchi coordinati da Est e da Sudovest.

Dunque in Israele si faranno le elezioni, da cui sperabilmente uscirà confermato il miglior leader che il popolo ebraico abbia avuto dopo Ben Gurion, mentre i palestinisti continueranno a essere governati da due cleptocrazie: quella “laica” ma non tanto di Ramallah e quella islamista di Gaza, entrambe sanguinose, crudeli coi propri cittadini, terroriste e antisemite, del tutto incapaci di provvedere al benessere dei propri sudditi, anche perché questo è l’ultimo dei loro interessi. Bisognerebbe che prima di tutto chi ha simpatia per i “poveri palestinesi” si chiedesse il perché di questo abisso economico, politico e civile in cui langue quella popolazione. Ma non mi risulta che nessun “progressista” filopalestinese abbia mai fatto davvero una riflessione in merito, al di là delle solite tiritere “anticolonialiste”. Neanche questo però meraviglia, perché ai “filopalestinesi” di quel che capita ai palestinesi non importa nulla, come si vede dall’indifferenza con cui sono state accolte le notizie sulle stragi nei campi profughi in Siria. Quel che gli interessa è combattere gli ebrei e il loro stato. Ma questa è un’altra storia.

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