Antisemitismo, razzismo, antisionismo e altri pregiudizi

Ugo Volli
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Antisemitismo

Antisemitismo, razzismo, antisionismo e altri pregiudizi

Antisemitismo
Ugo Volli
Ugo Volli

Antisemitismo, razzismo, antisionismo e altri pregiudizi. Purtroppo anche in Italia è tornato di nuovo attuale l’odio per gli ebrei, nelle cronache dei giornali e nel dibattito pubblico, oltre che nei comportamenti. Non sono per il momento atti di violenza fisica, ma “solo” violenze simboliche: scritte minacciose che compaiono su case di persone di origine ebraica, o dove hanno abitato vittime della Shoah, graffiti per terra che invitano a “calpestare gli ebrei” e sul modello di Teheran offrono una stella di David su cui mettere i piedi per disprezzo, post sui social media che promettono una nuova Shoah o parlano di quella di ottant’anni fa come di una montatura. Non siamo ai livelli di quel che accade in Francia, Belgio, Svezia, Germania e altri paesi europei dove le violenze fisiche non sono rare e talvolta arrivano all’omicidio, sempre provocano insicurezza e inducono gli ebrei ad abbandonare case e occupazioni, anche perché da noi l’azione delle forze dell’ordine è di solito efficiente e puntuale. Ma certamente dover attraversare la guardia di militari armati per andare a pregare in sinagoga, o a studiare a scuola o a visitare parenti anziani in una casa di riposo è un fatto triste e allarmante.

Come sempre in casi di ondate collettive di violenza, bisogna capire che cosa succede e quali ne sono le cause prossime e lontane, per poter intervenire correttamente. Vale la pena di iniziare la riflessione dalla terminologia. Si tende a parlare in questi casi di antisemitismo e razzismo. Entrambi questi termini sono poco adatti a comprendere l’odio per gli ebrei che si manifesta. “Antisemitismo”è una parola lanciata nel 1879 dall’antisemita Wilhelm Marr, in uno scritto intitolato La strada verso la vittoria del Germanismo sul Giudaismo come eufemismo per il vecchio “Judenhass” (odio per gli ebrei). Per rendere presentabile in una società liberale questa vecchia e terribile passione antigiudaica, Marr diluì gli ebrei nella “razza semitica”. Se si tralasciano le genealogie bibliche e si sta sul piano scientifico, però, non esiste una “razza” popolazione semitica unitaria sul piano genetico, ma solo un gruppo linguistico semitico che contiene non solo ebraico, aramaico, arabo, ma anche i linguaggi dell’Etiopia ed è in realtà un ramo del gruppo linguistico camitico-semitico, in cui vi sono egizi, berberi, somali, abitanti del Ciad ecc. Anche al più incallito razzista appare evidente che non si tratta di un popolo unico, né tantomeno di una “razza”.

Anche il “razzismo” c’entra fino a un certo punto. La parola “razza” compare in italiano nel Trecento dal francese “haraz” (allevamento di cavalli) e di qui si diffonde nelle altre lingue europee. Ma fino all’Ottocento, probabilmente al libro di Gobineau Essai sur l’inégalité des races humaines (1853) rimane attaccata ai tipi di animali e di oggetti (con significato peggiorativo) e non indica affatto le grandi famiglie di popoli umane; “razzismo”, “razzista” ecc. sono termini che nascono nei primi decenni del Novecento e si affermano solo col nazifascismo.

Perché è importante precisare queste date? Perché l’odio, la discriminazione, la persecuzione degli ebrei precede queste invenzioni linguistiche e concettuali di almeno quindici secoli. Tralasciando l’odio antiebraico di personaggi egizi come Manetone (IV secolo) e il disprezzo snobistico di Tacito e altri autori romani, perché non ebbero eredi diretti, vi è invece una continuità fra le polemiche di Paolo di Tarso, i terribili sermoni d’odio di celebri padri della Chiesa come Giovanni Crisostomo (IV secolo) Agostino Girolamo e Ambrogio (V-VI secolo) e la legislazione antiebraica che inizia in quei tempi. La persecuzione sanguinosissima e massiccia però si afferma a partire dall’XI-XII secolo con lo sterminio delle comunità renane (Rouen 1095, Reims, Verdun e Xanten; Neuss, Metz, Speyer, Treviri, Worms e Colonia; Magdeburgo, e Praga; a Worms il numero di morti è stimato a 800, a Magonza a più di 1.000). Del 1144 a Norwich, in Gran Bretagna è il primo episodio di calunnia del sangue, che portò alla distruzione della comunità ebraica locale. Da allora gli stermini, le espulsioni, i roghi di persone e di libri, l’imprigionamento nei ghetti, le conversioni forzate, il rapimento dei bambini, le discriminazioni, insomma la persecuzione e l’odio degli ebrei non sono mai cessati in Europa (e con caratteristiche un po’ diverse nemmeno nel mondo islamico). Bisogna dire che quasi sempre (fino al Cinquecento quando le cose cambiano con Lutero e con papi come Paolo IV, Pio V e Clemente VIII) questi crimini non erano promossi tanto dai vertici della Chiesa e degli Stati, quanto dal basso clero, dai feudatari locali, da ordini monastici come francescani e domenicani, ma anche da masse popolari avide e fanatizzate.

Proprio per distinguerli dall’ ”antisemitismo” attuale di solito gli storici si riferiscono a questa millenaria persecuzione come “antigiudaismo cristiano”; la differenza sarebbe nella natura religiosa del secondo e in quella biologica del primo; ma in mezzo c’è stato l’ ”antigiudaismo di classe” di autori come Marx e Proudon, quello – diciamo- “culturale” di filosofi come Voltaire, Kant, Fichte. Hegel o musicisti come Wagner, politici come Napoleone, Bismark, ma anche Stalin, quello economico e sociale che era diffusissimo nelle società liberali degli ultimi due secoli e ancora riemerge oggi. Tutte queste forme non erano condizionate a una teoria biologica delle “razze”, ma concretamente centrate sull’esistenza di una popolazione che vivendo e operando produttivamente in mezzo ai popoli europei non si lasciava assimilare e manteneva la propria fede e i propri costumi. Del resto i primi ad adottare un odio per gli ebrei del tipo che oggi chiameremmo razzista, cioè legato alla discendenza etnica e non alla religione dichiarata furono gli esponenti del cattolicesimo spagnolo, con la teoria e la legislazione della “limpieza de sangre” (purezza del sangue) che escludeva i discendenti degli ebrei convertiti da incarichi nella Chiesa e nello Stato, con un rigore anche superiore a quello che sarebbe poi stato adottato dai nazisti. Il primo provvedimento di questo tipo sono gli statuti di Toledo del 1449 e la prima approvazione pontificia è di Alessandro VI ne1 1496.

Insomma, è sbagliato identificare l’odio per gli ebrei con le teorie ottocentesche e novecentesche della razza e in particolare con il nazifascismo. Si può essere razzisti (credere cioè contro la scienza che l’umanità si divida in gruppi etnici ben definiti, di cui alcuni migliori degli altri) senza essere specialmente antisemiti: durante il positivismo parecchi personaggi di origine ebraica, da Disraeli a Lombroso, parlavano del proprio popolo come di una “razza”, magari anche per esaltarne le qualità. E si possono odiare gli ebrei senza credere alle razze, come è accaduto a tantissimi nel mondo cristiano, ma anche in quello islamico e nel movimento socialista. Non è neanche necessario essere “xenofobi”, cioè avere timore degli stranieri: l’esperienza dell’Ottocento e Novecento mostra che gli ebrei più odiati erano quelli bene integrati e di successo come mostrano fra l’altro i casi di Dreyfus di Einstein o Freud. E se non ci fosse una certa fissazione ideologica sarebbe quasi inutile dire che non vi è rapporto fra antisemitismo e “islamofobia”, cioè la paura per le conseguenze sociali e culturali della massiccia immigrazione islamica in corso: le statistiche mostrano che chi odia di più gli ebrei oggi sono proprio le popolazioni islamiche. Invece è necessario ribadire che vi è una forte affinità fra antisionismo e antisemitismo, perché l’antisionismo consiste nel negare solo al popolo ebraico il diritto all’autodeterminazione nazionale nella terra d’origine, il che ha un evidente carattere discriminatorio e deriva certamente, oltre che da interessi politici, da antiche “punizioni” stabilite dalle tradizioni religiose cristiane e islamiche ai danni del popolo che aveva rifiutato di aderire alla loro ingiunzione di convertirsi. Oggi anzi, se si dovesse stabilire il più semplice test sull’antisemitismo, questo certamente riguarderebbe l’atteggiamento riguardo allo stato di Israele.

Queste considerazioni linguistiche e storiche permettono una conclusione piccola ma importante. Rifiutare l’antisemitismo, nel suo senso originale di odio per gli ebrei, vuol dire innanzitutto riconoscerne l’identità, la storia e i diritti collettivi; accettare che gli ebrei vivano secondo le loro norme ancestrali o che comunque conservino la loro identità essendo cittadini dei vari paesi in cui abitano e vivendovi in sicurezza; proteggere il loro diritto ad avere uno stato. Non proporre come condizione di questi diritti elementari l’eliminazione della loro differenza culturale e religiosa, insomma trattarli come i belgi o i neozelandesi, i Sikh o i baha’i, che pur conservando lingua e costumi non sono oggetto di discriminazione (almeno in occidente, in paesi come l’Iran anche costoro sono perseguitati). Sembra pochissimo, si tratta di elementari diritti civili e politici, ma non è facile. Perché gli atteggiamenti collettivi hanno una tremenda inerzia e millenni di pregiudizi e persecuzioni sono ancora presenti nella lingua e nella cultura comune.

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