Negoziati di pace e incentivi: un approccio finora inesplorato dagli Stati Uniti

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Mario Del MonteEditor
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Medio Oriente

Negoziati di pace e incentivi: un approccio finora inesplorato dagli Stati Uniti

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Mentre prende forma il nuovo governo israeliano affiorano i dubbi sulla tenuta della risicata maggioranza e sulla sua capacità di cooperare con l’amministrazione Obama. Alla Casa Bianca desta molta preoccupazione il fatto che rispetto al precedente governo questa nuova coalizione ha un baricentro molto più spostato a destra, cosa che secondo il Presidente degli Stati Uniti impedirà di raggiungere qualsiasi soluzione alla questione palestinese nel breve periodo.

Recentemente il Sotto-Segretario di Stato Wendy Sherman ha indicato che il supporto degli Stati Uniti a Israele sulla scena internazionale dipenderà da quanto quest’ultimo si impegnerà nella Soluzione a due Stati, un segnale che Obama potrebbe sostenere una risoluzione del Consiglio di Sicurezza ONU che preveda il completo ritiro dell’esercito israeliano dai Territori Contesi. Già a Dicembre il Segretario di Stato John Kerry aveva ambiguamente fatto intendere che il veto americano sulle mosse unilaterali dei palestinesi all’ONU non era più scontato. Questo approccio dovrebbe preoccupare chiunque abbia a cuore la pace fra israeliani e palestinesi: una soluzione forzata non avvicinerà le parti, genererà solo più tensione con il conseguente rischio di una nuova guerra. Una negoziazione di successo dovrebbe sicuramente contenere degli incentivi al dialogo per le parti, entrambe devono credere di poter raggiungere i propri obiettivi facendo qualche concessione e questo non è realizzabile attraverso una risoluzione che impone le proprie condizioni per la fine del conflitto.

Decidere quali confini avrà Israele e quando dovrà completare il ritiro permetterebbe ai palestinesi di raggiungere alcuni obiettivi ma allo stesso tempo eliminerebbe qualsiasi incentivo al compromesso per le rimanenti questioni minando definitivamente qualsiasi speranza di ottenere dai palestinesi comportamenti moderati e il riconoscimento dello Stato d’Israele. Inoltre si tende spesso a non considerare il “problema Abbas”: il leader dell’Autorità Nazionale Palestinese, che ha la fama di moderato, ha più volte incitato alla violenza contro gli ebrei, governa con un mandato scaduto da ben sei anni e non ha mai indicato un suo successore nonostante l’età molto avanzata.

Israele dal canto suo difficilmente si farà persuadere alla cooperazione in maniera forzata anche a costo di ulteriori pressioni internazionali. Il caso Gaza ha dimostrato alla classe dirigente israeliana che concedere territori e seguire le indicazioni dell’ONU non garantisce un maggiore supporto internazionale ma, anzi, potrebbe portare a nuovi sanguinosi scontri. Gli Stati Uniti e tutti gli altri paesi interessati alla risoluzione della questione palestinese non sembrano aver capito che la Soluzione a due Stati non è al momento raggiungibile perché sta stretta ad entrambe le parti in causa, una nuova e più flessibile strategia è necessaria se si vogliono ottenere risultati concreti. Un primo passo potrebbe essere incentivare la cooperazione economica tra israeliani e palestinesi perché è nell’interesse di entrambi realizzarla. Esattamente l’opposto di quanto sostengono i promotori della campagna BDS (Boycott Divestment and Sanctions) con il loro approccio che per ora ha contribuito solo a radicalizzare lo scontro allontanando qualsiasi ipotesi di intesa. Inoltre è necessario un accurato controllo di come vengono reinvestiti i fondi dati all’ANP per prevenire che questi possano essere utilizzati nella diffusione di idee razziste e antisemite. La creazione di una cooperazione e di un’interdipendenza economica potrebbe dare luogo a una pressione su entrambe le leadership politiche gettando le basi per la pace e la stabilità dell’area nel lungo periodo.

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