La finanza iraniana

Giancarlo Elia Valori
Giancarlo Elia Valori
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Medio Oriente

La finanza iraniana

banconote iraniane

La dirigenza di Teheran non è soddisfatta del ritmo e del modo in cui le sanzioni internazionali stanno per essere definitivamente tolte. Da un lato, l’Iran ha ancora moltissime difficoltà ad accedere, con procedure standard, ai mercati finanziari globali, dall’altro vi è un evidente ritardo dello stesso sistema bancario interno.

L’inflazione è ormai all’11,9% annuo, il tasso di interesse massimo è sceso dal 24% al 22%, mentre il surplus commerciale, come ha annunciato Rowhani, è oggi positivo per la prima volta, dopo ben 37 anni. Le esportazioni oil e non-oil alla fine di Marzo 2016 erano, rispettivamente, di 41 miliardi di Usd e di 42 mld. con una crescita annua prevista di solo lo 0,7%. Cresce l’export della zona economica libera di Anzali, nella provincia settentrionale di Gilan, con uno straordinario dato di 40 milioni rispetto ai 20 dell’anno scorso.

E’ evidente la necessità, da parte di Teheran, di diminuire rapidamente la dipendenza dell’economia iraniana dalla sola vendita del petrolio; mentre la raffineria di Bandar Abbas sarà raddoppiata per quanto riguarda l’estrazione e la condensazione del gas naturale, con capitali e maccchinari in gran parte di origine iraniana.

Il problema vero è qui culturale e politico: il sistema bancario iraniano è stato segregato da molti anni rispetto ai flussi internazionali; ed oggi la dirigenza finanziaria del Paese non sa come gestire la nuova, inevitabile, globalizzazione dell’Iran sciita. C’è chi sostiene, negli uffici studi delle aziende finanziarie europee, che il sistema bancario di Teheran è talmente mal diretto, e con un tale predominio della manomorta politica e settaria, che la crisi strutturale di quel comparto dovrebbe arrivare da qui a tre anni, al massimo. Il ministro delle finanze, poi, Ali Tayyebna, sostiene da tempo che il governo dovrebbe rifinanziare le banche a causa delle perdite derivanti dalla caduta dei prezzi internazionali del petrolio; mentre la Banca di Emissione di Teheran, afferma che il debito governativo verso le banche sia di 33 miliardi di Usd o addirittura maggiore.

I casi di corruzione economica e finanziaria sono all’ordine del giorno, e le istituzioni bancarie iraniane sono, in parte proprio a causa della vecchia chiusura ai mercati internazionali, aduse a operazioni oscure, personali, ambigue. A metà maggio dovrebbe iniziare un Forum internazionale della banche iraniane, che quest’anno si terrà a Berlino.
Se, come è probabile, avremo nei prossimi mesi una recessione globale, derivante dal fatto che le banche USA non sono convinte della efficacia e solvibilità dei nuovi prestiti e della possibile inflazione al 2%; e i banchieri USA ritengono che, con l’attuale ritmo di crescita nordamericano, la ripresa non arriverà che nel 2020.

Se questo è il dato di Washington, si possono immaginare le difficoltà geoeconomiche di Teheran, soprattutto in un mercato petrolifero molto più frazionato, concorrenziale, non-OPEC di quello che caratterizzò il welfare state religioso dal 1979 ad oggi. Peraltro, il problema vero dell’Iran, dopo la fine delle sanzioni, è la carenza di investimenti produttivi e la debolezza delle tecnologie interne per l’estrazione e la diversificazione. O le comprano all’estero, ma le banche non si fidano, o le producono all’interno, con costi maggiori e con minore efficacia tecnologica. Viene qui in mente il vecchio testo di Arghiri Emmanuel, lo scambio ineguale, quello che avviene quando lo scambio economico tra Primo e Terzo Mondo si stabilizza sul tasso di profitto medio. Accade, in questo modo, che le ragioni di scambio del Paese Terzo tendono sempre a diminuire in termini reali. Qui, sia pure in un contesto geopolitico ben diverso da quello degli anni ’60, quando Emmanuel scriveva, accade un fenomeno simile.

Il reddito medio iraniano tende a abbassarsi anche a parità di tassi di cambio. I debiti delle banche iraniane, data la loro bassa qualità sul piano delle certificazioni contro il money laundering, non possono allora essere “internazionalizzati” e vanno a aumentare, fino a renderlo quasi usurario, il tasso di interesse per i prestiti interni. O a far fallire le banche stesse. E quindi a muovere denaro dello Stato che potrebbe essere meglio utilizzato altrove. E’ ovvio che, in questo caso, vince sempre il nesso tra creditori e politici, o tra istituzioni governative, che prendono soldi comunque, e i privati, che rimangono di fatto fuori dal mercato del credito.

I npl, non performing loans, sono almeno il 20% del totale dei crediti concessi dalle banche iraniane e quindi, se la finanza internazionale non si fida, e certo che non si fida, del mercato bancario iraniano, mancherebbe almeno il 37% dei capitali necessari a breve per rinnovare e diversificare la struttura produttiva di Teheran. Se questo non accadesse, alla crisi bancaria iraniana corrisponderebbe, tra tre-quattro anni al massimo, la ripresa di un comportamento da free rider da parte di Teheran, che non avrebbe nessun motivo per diminuire i suoi punti di attrito strategico: lo Yemen, le reti sciite negli Emirati, l’Iraq, il confine del Golan, la Siria e, in futuro, l’Asia Centrale.

Il Fondo Monetario Internazionale prevede una caduta del PIL dal 3 allo 0,5% nei prossimi due anni, che saranno cruciali. L’inflazione tende, lo abbiamo visto, a calare, ma è un effetto congiunturale dei prezzi più bassi del cibo e degli altri beni di prima necessità.
Il FMI ha previsto, ottimisticamente, che il PIL, dopo la fine delle sanzioni, dovrebbe arrivare al +5-6% annuo, ma il vero problema è, come diceva un altro economista della tradizione marxista di Emmanuel, James O’Connor, la crisi fiscale dello stato iraniano.
Le banche internazionali chiedono alle case finanziarie iraniane e al governo sciita una forte disinflazione (che fa peraltro aumentare la durata dei debiti) e una maggiore autonomia della Banca di Emissione, che è comunque emanazione diretta della Guida Suprema.

Vi è anche il problema, comune a tanti stati produttori di petrolio in Medio Oriente, dei sussidi al consumo dei carburanti, ma l’organizzazione iraniana che li distribuisce è in pareggio dal 2015. Finora, le esportazioni di greggio, da parte di Teheran, sono salite di circa un quinto all’inizio di questo anno, arrivando a 1,5 milioni di barili/giorno.
Il costo di produzione reale del barile, sia per motivi geologici che tecnologici, è particolarmente basso, si tratta addirittura di 1,5 Usd a barile. Durante le sanzioni il costo di produzione del barile era di 5 Usd, oggi la sovrapproduzione petrolifera è del 2%, ma l’Iran vuole arrivare a 500 mld di barili/anno, lo 0,5% della produzione mondiale, per spalmare su una grande massa di export le sue debolezze creditizie e acquisire “denaro facile”.

E’ vero, peraltro, che molti calcolano il break-even point del barile iraniano a un costo molto più alto, 136,0 Usd/barile, ma non bisogna dimenticare che, in questo caso, sono calcolati tra i costi anche le spese di commercializzazione FOB, trasporto, fisco.
E, comunque, l’Iran ha un Break Even Point che è più basso di quello nigeriano e venezuelano (che è il più caro barile al mondo per spese di estrazione) ma più alto del Bahrein, dove sono molti gli sciiti, e dell’Arabia Saudita (93,1 Usd) dove i seguaci dell’Imam Alì sono in maggioranza proprio tra i lavoratori del petrolio e nelle zone di estrazione.

Con i soldi della grande vendita petrolifera l’Iran vuole rinnovare le sue infrastrutture, sostenere la diversificazione economica e, soprattutto, espandere il mercato interno.
Ma sarà una operazione priva di pericoli? E’ troppo presto per dirlo, come disse Zhou Enlai a Kissinger, che gli chiedeva cosa pensassero i comunisti cinesi della Rivoluzione Francese del 1789. Ma il costo netto per il mantenimento delle classi dirigenti iraniane è tale da rendere difficili questi traguardi. Ali Khamenei, la Guida Suprema, il Rahbar, ha un impero economico personale di 95 miliardi di Usd. Altri elementi della nomenklatura sciita gestiscono patrimoni similari.

Siamo qui in presenza, proprio come sta accadendo in Italia e in altri Paesi occidentali, alla corruzione delle classi dirigenti che diviene l’impedimento principale alla crescita economica.

Solo il Venezuela, l’Arabia Saudita e il Canada hanno però più riserve petrolifere dell’Iran.
Teheran dispone di più petrolio dell’Iraq; e del Kuwait e della Libia messi insieme.
Quindi, con questa semplice tabella abbiamo dedotto alcune ipotesti geopolitiche: il contrasto con l’Arabia Saudita non potrà non aumentare, mentre Teheran avrà tutto l’interesse a limitare l’espansione sunnita in Libia e in Kuwait, dato che in quest’ultimo sopravvive una minoranza sciita.

Una geopolitica petrolifera, quindi, che unisce tutti i seguaci dell’Imam Alì sotto la direzione di Teheran, per uno scontro che sarà finanziario, oltre che militare, con Riyadh.
Ma riuscirà l’Iran ad avere a disposizione i capitali, a breve-medio termine, che serviranno per l’espansione produttiva petrolifera, senza limitare la crescita del mercato interno, che è la chiave della sua stabilità politica?

Se il “cerchio del potere” si farà da parte, e migliorerà l’efficienza delle banche iraniane, allora qualcosa di positivo potrebbe avvenire. Se invece la quota di corruzione politica e privata aumenterà o rimarrà stabile, a soffrirne saranno o gli investimenti per l’upgrade petrolifero oppure la crescita del mercato interno, che potrebbe innescare molte e imprevedibili rivolte di massa. Ma se diminuisce la liquidità della classe politica, si restringe anche la base elettorale, spesso clientelare, di buona parte del regime, sia a “destra” che a “sinistra”. E sul piano strategico la fine delle sanzioni, comunque vada la questione bancaria iraniana, porterà Teheran più vicino a Washington, che non mancherà, probabilmente, di sostenere alcuni investimenti settoriali del regime sciita. Mentre l’Arabia Saudita, in questo nuovo contesto, giocherà alcune sue carte come free rider in Medio Oriente, finanziando, malgrado la sua crisi finanziaria, più seria di quella iraniana, alcune proxy wars nel Golfo, nel Maghreb e, probabilmente, anche in Asia Centrale.

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