Il caso Khashoggi

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Piero Di Nepi
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Medio Oriente

Il caso Khashoggi

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Sua cugina è passata alla storia della grande nautica per aver dato il proprio nome a un superyacht di 85 metri che naviga ormai da 38 anni, appartenuto per un breve periodo anche a Donald Trump, e che oggi batte bandiera saudita sotto la proprietà del magnate Al-Waleed bin Talal. Il Nabila lo si poteva ammirare spesso a Porto Cervo nei ruggenti anni ’80 del secolo passato, e a suo tempo costò 100 milioni di dollari ad Adnan Khashoggi, che di Nabila Khashoggi era appunto il padre. Celebre per essere stato fino all’ultimo giorno di vita – è morto a Londra nel giugno 2017 – vicinissimo alla famiglia reale di Riyadh e protagonista come mercante d’armi e di petrolio nei più intricati affaires di fine secolo. Dal caso più losco, il cosiddetto Affare Iran-Contras, fino alle vicende di Imelda Marcos, ex first lady delle Filippine. Passò dalla mondanità più esclusiva a un carcere svizzero. Nel 1988, 90 giorni. Tra i nipoti prediletti di Adnan c’era Dodi al Fayed, compagno di Lady Diana, vittima insieme con lei dell’incidente stradale del 31 agosto 1997 in un sottovia di Parigi. Altro nipote, non sappiamo se prediletto, Jamal Ahmad Khashoggi, scomparso a Istanbul il 2 ottobre scorso.

Nessuno porta la responsabilità della propria genealogia, ma certamente la famiglia Khashoggi rende partecipi di un nome molto impegnativo tra quelli che contano davvero nei palazzi del potere saudita. Jamal diviene editorialista al Washington Post, dopo essersi trasferito negli Usa in esilio volontario. E’ il settembre 2017. Una carriera folgorante, da esponente di punta della dissidenza saudita, molto apprezzato dai nemici del presidente Trump. Si tratta però di una dissidenza vicina ai Fratelli Musulmani, dunque islamista estrema e nemica dei regimi sunniti tradizionalmente vicini all’Occidente. Le ragioni che inducono i liberal anglosassoni ad apprezzare l’uomo che si è guadagnato la fama di oppositore implacabile della monarchia non sono chiare. Soltanto le anime più candide possono credere che i decision makers dell’opposizione anti-Trump siano in lotta per la libertà di stampa e di opinione. Di sparizioni, interrogatori finiti male e colpi di stato se ne intendono parecchio anche le democrazie. Così insegnano le cronache, anche attuali.

Nessuno batteva ciglio, a parte Israele, per la causa degli omosessuali, delle donne e più in generale dei diritti umani in Arabia Saudita. Anzi gli Al-Saud venivano accusati di tutto, applicazione rigida della Sharia e 11 settembre 2001 inclusi. Poi è cambiato tutto, e a Riyadh si è avviata una timida politica di riforme. In effetti esisteva un “prima”. Jamal era ben presente nella stanza dei bottoni, come diciamo qui da noi, dunque vicinissimo agli Al-Saud e in rapporti stretti con il giovane principe ereditario Mohammed bin Salman (adesso MBS su tutti i media del pianeta). Poi divorzia e se ne va negli USA.

Di Jamal si sono perdute le tracce, e con ogni probabilità non è piu in vita. Entrato nella sede del consolato del suo paese, non ne sarebbe più uscito. Avrebbe dovuto rinnovare permessi e documenti. Il condizionale è d’obbligo perché, nonostante la tempesta mediatica che si è scatenata sul caso, finora non ci sono certezze. A parte i particolari orripilanti e le storie alla 007 che si lasciano filtrare su stampa e reti TV, le uniche certezze risulterebbero nei risultati ottenuti dalla polizia turca. Che però si è finora ben guardata dal renderli integralmente disponibili. Diciamo per chiarezza che un dissidente turco sarebbe molto cauto nei suoi contatti, soprattutto all’estero. Adesso servizi e polizia locali vengono indicati come non imparziali perfino dalla stampa vicina ai democratici USA, quella ha fatto esplodere il caso. Conclusione inevitabile, visto che 5 giornalisti e un accademico turchi sono stati appena condannati all’ergastolo. Ma lo stesso Erdogan risulta parte in causa, nel senso che da mesi si trova in rotta di collisione con i regnanti sauditi e soprattutto con il principe ereditario. Restano alcuni fatti.

Il caso Khashoggi viene utilizzato per colpire, ancora una volta, Trump. Perché? La sua politica dei dazi danneggia molte aziende che contano sia in Europa che negli USA. Le sanzioni contro l’Iran disturbano tutti quelli che vorrebbero lucrare sui nuovi affari con Teheran, a spese peraltro dei contribuenti europei. Infatti i miliardi che gli ayatollah investirebbero sono anticipati dalle nostre banche, dunque da noi. La distensione con la Corea del Nord non piace, perché mette fine a traffici lucrosi e ben nascosti e interrompe, segreto di Pulcinella, i test nucleari effettuati in conto terzi. Ma Trump è oggetto di una vendetta trasversale che ha per bersaglio MBS. E di cosa sarebbe colpevole il principe? Prima di tutto di voler liberare l’economia del Regno dalla dipendenza dall’oro nero. Il progetto si chiama Vision 2030. Dovrebbe piacere agli ambientalisti di sinistra, verdissimi o sedicenti tali. E invece lo trattano da bufala del secolo. Guarda caso si trovano in buona compagnia con le onnipotenti multinazionali del petrolio. Non bastasse, i sauditi preferiscono acquistare armi negli USA. Così i grandi fabbricanti europei si sono trasformati in pacifisti e incoraggiano roventi polemiche sul web, nelle TV e sulla carta stampata. E poi la cosa più seria, secondo i nemici di Trump. Infatti MBS è amico personale di Jared Kushner, genero del presidente. Jared è un bravo ragazzo ebreo arrivato molto in alto, forse troppo secondo parametri che non dispiacciono neppure in Italia. Kushner e sua moglie Ivanka starebbero lavorando al disgelo tra Israele e il regno saudita. Che dire? Come spiegavano papa Pio XI e poi Giulio Andreotti in un tempo lontano, “a pensare male si fa peccato, ma spesso si indovina.”.

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