Dovremmo fare l’impossibile perché non succeda più

Alex Zarfati
Alex ZarfatiConsulente media, PR e digital sull'asse Roma-Tel Aviv. Presidente di Progetto Dreyfus.
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Editoriali

Dovremmo fare l’impossibile perché non succeda più

Editoriali
Alex Zarfati
Alex ZarfatiConsulente media, PR e digital sull'asse Roma-Tel Aviv. Presidente di Progetto Dreyfus.

“Un capretto su un carretto
Va al macello del Giovedì
Non s’è ancora rassegnato
A finire proprio così”

Comincia in questo modo una canzone di Herbert Pagani che racconta con la metafora di un capretto portato al macello le vicende del popolo ebraico. Un popolo così ostinato a quanto pare che è sempre in prima fila anche per sperimentare sulla propria pelle nuovi modi di morire. Nella Shoah fummo i primi a subire uno scientifico sterminio di massa. C’erano stati altri genocidi, nella storia, ovviamente. Ma niente come lo sterminio degli ebrei rappresentò la messa in opera, nella moderna Europa, di un gigantesco sistema politico, economico, industriale, al servizio di un solo obiettivo: l’annientamento del popolo ebraico.

Oggi Hamas attacca Israele, cogliendo il paese di sorpresa. Ma lo shock più grande non è quello militare (sul quale si scriveranno libri), ma gli inediti rapimenti di cittadini israeliani trasportati forzatamente a Gaza. Nel tempo c’erano stati  innumerevoli attentati, anche cruenti, ai nostri danni e a quelli di mezzo mondo. Ma niente come la vista di famiglie intere prelevate in pigiama dai propri letti e caricate sui pick-up, mogli e mariti costretti a vedere l’uno le atrocità compiute sull’altro, anziani malati deportati in stato di incoscienza, bambini esibiti come trofei, giovani donne denudate ed esposte agli insulti della folla impazzita  e madri con neonati, tutti dati in pasto al mondo in diretta video. Costringendo le famiglie e l’altra metà del globo civile ad apprendere della sorte dei propri cari nelle centinaia di clip distribuite a mezzo social dai macellai e dai volenterosi sostenitori di Hamas.

Gli ebrei di tutto il mondo sono increduli, paralizzati, storditi, davanti a questa dose di brutalità che sta viaggiando ancora negli stessi smartphone e nelle stesse app dove siamo abituati a vedere balletti e ricette. Un misto di rabbia, impotenza, disorientamento che non ha precedenti. Uno shock così enorme da determinare enormi ricadute sia sul piano della catena di comando (a medio e lungo termine), che dal punto di vista sociale (un trauma potenzialmente in grado di incidere sull’inconscio collettivo del popolo ebraico).

Prima di tutto le elite politico-militari, che si sono svegliate improvvisamente ieri mattina ricordandosi di essere in medio oriente e non in un pezzo di Europa. Israele è nello stesso quadrante di terra dove è nato l’Isis, dove si è dato fuoco in diretta a piloti catturati, dove sono stati decapitati giovani giornalisti, impalati ambasciatori e reso schiavi interi villaggi. Il fatto che a Tel Aviv o a Eilat si viva come se si fosse a Miami deve aver fatto dimenticare a chi ha in responsabilità le sorti dei cittadini d’Israele che esiste ancora una linea di demarcazione molto chiara tra barbarie e civiltà. E che se dentro alla gabbia del leone infili la mano, quello che puoi trovare attaccato quando la ritiri, al massimo sono brandelli di carne. Quello che dovremmo aspettarci dunque è un cambio di paradigma nelle operazioni che restituiranno ai terroristi una controffensiva nell’unica lingua che possono comprendere. E attendo che siano considerati finalmente responsabili non solo le orde barbariche di Hamas e della Jihad, ma tutto il network intorno al quale si muovono: dai “distributori di caramelle” (quindi la popolazione, tutt’altro che innocente), ai loro fiancheggiatori nel mondo, alle complici ONG europee.

L’altra ricaduta, che mi restituisce di gran lunga più soddisfazione solo a scriverla, è la risposta enorme in termini di partecipazione degli ebrei di tutto il mondo. Ci sono file per donare il sangue al Maghen David Adom (la Croce Rossa israeliana) e migliaia di cittadini arrivano da ogni parte d’Israele per donare cibo. Nella diaspora ebraica siamo tutti “in attesa di istruzioni”, pronti a mobilitarci al primo cenno per fare la propria parte in aiuto dei correligionari d’Israele. Si organizzano chat per ospitare israeliani che non possono rientrare a casa e via alle gare di solidarietà per “fare la propria parte” in ogni modo possibile, anche se non si sa ancora quale. Lo shock ha cauterizzato quel solco nella società civile israeliana tra fazioni che si scontrano nelle piazze da mesi e in 24 ore queste diversità appaiono totalmente cancellate. Una situazione che sta creando un supporto senza precedenti ad Israele non solo in tutto l’occidente, ma anche nel mondo arabo. 

Le immagini dei rapiti ci tormentano e le loro urla del 7 ottobre, giorno della nostra Pearl Harbour, si sommano ai nostri lutti – solo in questo mese – dell’8 ottobre (guerra di Yom Kippur), del 9 ottobre (attentato alla sinagoga di Roma), del 16 ottobre (rastrellamento nazista a Roma). Ma faremo l’impossibile, perché non succeda più.

“Ora dormi, caro figlio
Sta tranquillo che resto qui
Non è detto che la storia
Debba sempre finire così
Il mio bel capretto è nato in libertà
Finché sono in vita, mai nessuno lo toccherà
La storia te l’ho raccontata apposta
Perché un giorno pure tu
Dovrai fare l’impossibile
Perché non succeda più”.

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