Gli effetti strategici dell’accordo nucleare con l’Iran

Giancarlo Elia Valori
Giancarlo Elia Valori
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Medio Oriente

Gli effetti strategici dell’accordo nucleare con l’Iran

Ali Akbar Salehi, il vice-presidente iraniano, lo ha detto chiaramente alla fine dell’agosto ultimo scorso: la Cina avrà “un ruolo determinante” nel ridisegno del reattore nucleare Arak-1, al fine di diminuire la sua produzione di plutonio secondo quanto previsto dal P5+1.

Teheran, durante le discussioni finali, ha proposto peraltro di diminuire la produzione di plutonio da parte di Arak -1 per destinare il chilo annuale futuro di materiale nucleare alla “ricerca scientifica e medica contro il cancro”, ma Arak-1 sarà comunque la prima preda di Pechino dopo l’accordo del P5+1. Sarà infatti Pechino a rielaborare e a diminuire il potenziale di Arak, che potrebbe produrre, in almeno due anni, gli otto chili di plutonio che occorrono per una bomba nucleare. Ma, come si vede, la sedazione del centro iraniano passa per un atto di buona volontà di Teheran e l’aiuto interessato di un vecchio alleato dell’Iran, la Repubblica Popolare Cinese. Sarà così per gli altri siti rilevanti per il nucleare sciita: prima che arrivi l’ispezione IAEA, le strutture indicate, piuttosto genericamente, nel documento JCPOA che gli occidentali sbandierano come loro vittoria, arriveranno gli alleati regionali dell’Iran a neutralizzare il sistema, ma per i loro fini. Cina e Russia in prima battuta.

La Cina vuole una protezione avanzata, anche nucleare,  da una minaccia marittima mediterranea e dal Golfo Persico. Certamente Pechino, poi, avrà una ulteriore presenza economica in Iran, grazie a questo aiuto su Arak-1 e in futuro su altri siti nucleari. La Cina è già leader commerciale mondiale: è il primo importatore di greggio mondiale, dal 2014, mentre l’anno prima il Paese del Dragone Rosso è stato il primo nell’interscambio mondiale, con un volume di scambi totali di 4,2 trilioni di dollari Usa. Oggi, la Cina è il primo partner commerciale di ben 130 nazioni al mondo. Con l’Iran, detto tra parentesi, Pechino è, appunto, il primo partner commerciale con un totale degli scambi, nel 2013, nel pieno della crisi globale, di oltre 50 miliardi di dollari Usa. Tra la Cina e l’Iran il nesso nucleare è chiaro: tanta energia ricavata dall’atomo in più per Teheran è una quota maggiore di petrolio per l’export, e quindi soprattutto per Pechino.

C’è peraltro un nesso tra i consumi interni di petrolio e l’esportazione di idrocarburi, in Iran: la crescita dei consumi interni del paese sciita è di circa il 6,4% annuo, con il raddoppio della popolazione in soli venticinque anni e il boom della produzione automobilistica interna, che produce oggi ben un milione di auto l’anno. Il peak oil iraniano è stato nel 1996 e, da allora, la produzione di petrolio è scesa. I tecnici del paese sciita affermano che, dal 2008 in poi, se non ci sarà aumento dell’estrazione, non ci sarà più petrolio da esportare, per l’Iran. Ma nessuno, come peraltro accade per l’Arabia Saudita, dove l’entità delle riserve è segreto di Stato, conosce la pura verità. Oggi siamo a 3375 mila barili/giorno di estrazione, dati del 2014, mentre l’Arabia Saudita, anch’essa alle prese con l’invecchiamento di molti dei suoi pozzi, arriva a 11624mila barili/giorno, sempre secondo gli ultimi dati disponibili, appunto  quelli del 2014. D’altra parte, lo ripetiamo, i consumi interni iraniani di energia valgono, oggi, oltre 250 milioni di petrolio equivalente. Secondo fonti ufficiali iraniane, la repubblica sciita estrarrà 500.000 barili/giorno per l’export, se le sanzioni saranno tolte, mentre si dichiarano 2,8 milioni di barili/giorno per l’anno in corso, il 2015.

Propaganda? Forse. Ma le tecnologie cinesi e russe possono scoprire molti siti petroliferi nuovi, che le restrizioni sull’interscambio tecnologico hanno impedito di sondare. Anche i tecnici ENI, che ben conoscono la zona, sono ottimisti sul potenziale petrolifero e gaziero di Teheran. D’altra parte, se le sanzioni contro l’Iran non sono prese sul serio da Russia e Cina, figuriamoci quanto gli altri Paesi asiatici si sentono spinti a seguire il percorso sanzionista degli USA e della UE. Inoltre, gli stessi tecnici militari USA affermano di non potere lanciare un attacco a lungo raggio contro l’Iran, poiché non hanno l’armamento convenzionale adatto a svolgerlo con credibile successo.

E’ qui il gioco del gatto col topo che Teheran ha compiuto da tempo con gli Stati Uniti e i suoi alleati occidentali, che ha avuto il suo culmine con la firma del JCPOA. Peraltro, nessuno può prevedere, da stratega, se l’attacco convenzionale USA all’Iran non avrebbe incendiato tutto il Golfo Persico, destabilizzando il commercio mondiale sia oil che non-oil.  Mettiamo nel conto anche la creazione della New Development Bank dei BRICS e della Asian Infrastructure Development Bank cinese, la chiusura dello spazio strategico occidentale diventa definitiva dopo l’accordo sul nucleare del P5+1 con l’Iran. Insomma, per uno strano gioco del destino, e soprattutto per l’incapacità strategica occidentale, tutta buoni sentimenti, tè e pasticcini, l’Iran ritorna nel mercato-mondo proprio grazie alla sua minaccia nucleare, proprio ciò che lo aveva escluso dal normale ciclo della globalizzazione.

Secondo il ministro iraniano del petrolio, Bijan Namdar Zaganesh, le riserve petrolifere di Teheran sono attualmente, nel 2015, valutate 157,8 Bbbl, milioni di barili, sui dati della BP. Con le sanzioni tolte, l’Iran avrà più finanziamenti per sostenere il suo piano nucleare, quando la pressione occidentale finirà, ma questo non significa che non si dovrà riproporre il problema dell’armamento atomico di Teheran in futuro. Ma in quel caso sarà inserito, come ebbe a suggerire involontariamente Mahmoud Ahmadinedjad, presidente della repubblica sciita dal 2009 al 2013, in un contesto strategico diverso: l’espansione della potenza iraniana in Asia Centrale e nel contesto dello SCO, Shangai Cooperation Organization, e il gioco allora sarà tra Teheran e Ankara. Con la NATO, naturalmente, che starà a guardare.

I jihadisti della Valle del Ferghana sono sostenuti dalle organizzazioni wahabite iraniane, ma gran parte dei musulmani della sunna in Asia Centrale sono seguaci della scuola hanafita. E’ la scuola più “liberale” del sunnismo, quella che predilige il dialogo e la conversione pacifica degli “infedeli” e che predilige, nel diritto sciariatico, il ragionamento per analogia, non la letteralità del testo, il quiyas. Una affinità con il “partito di Alì”, la shi’a. Ci sarà quindi un modo, peraltro già presagito in un vecchio discorso dello sceicco Al Qaradawi, il leader religioso della Fratellanza Musulmana, che oggi vive in Qatar, di mettere a tacere le dispute politico-teologiche tra sunniti e sciiti di fronte alla possibilità di dare un colpo definitivo a “ebrei e crociati”. Se quindi l’Iran, come vuole la Russia, potrà entrare nella SCO appena finite le sanzioni, allora vorrà dire che tutto il blocco centrale dell’Asia, il vecchio Hearthland di Mackinder, quello che se detenuto in possesso era al sicuro da ogni talassocrazia, e gli USA sono appunto egemoni per il loro possesso del mare.

Nessuno dei potenziali alleati regionali di Washington è contento dell’accordo Iran-P5+1. Non lo è l’Egitto, che vede con timore l’espansione della potenza sciita nel Grande Medio Oriente, non lo è certamente Israele, che sa benissimo come l’accordo sia facilmente aggirabile da parte di Teheran, non piace all’Arabia Saudita e nemmeno alla piccola ma coraggiosa Giordania. Abbandonare i propri alleati per sostenere una potenza nemica che, appena ricostruita la sua economia, riprenderà a armarsi per via nucleare, con reattori posti in Yemen, nell’area Houthi, o nella Siria stabilizzata dall’intervento russo (e iraniano) di questi giorni, oppure con materiale di contrabbando che arriverà o dall’India o dal suo concorrente regionale, il Pakistan. Ecco cosa è successo con l’accordo JCPOA, se lo analizziamo con l’occhio della strategia globale.

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