L’ambiguità turca e la debolezza dell’Occidente sono la chiave del successo dell’ISIS

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Mario Del MonteEditor
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Medio Oriente

L’ambiguità turca e la debolezza dell’Occidente sono la chiave del successo dell’ISIS

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Due nuove preoccupanti notizie relative allo Stato Islamico sono recentemente apparse sui media di tutto il mondo. La prima è quella riportante l’utilizzo di armi chimiche contro i curdi in Siria, l’altra li vede conquistare una città nella Libia Orientale. Nonostante l’intervento della Coalizione Internazionale guidata dagli Stati Uniti che ha ucciso un elevato numero di combattenti jihadisti attraverso raid aerei, l’avanzata dell’ISIS sembra inarrestabile in Siria, Iraq, Sinai e Libia. Perché l’Occidente, terrorizzato dal pericolo di attentati sul suo territorio, non è ancora riuscito a trovare una soluzione al problema? La risposta è legata a due fattori decisivi: il comportamento della Turchia e la debolezza dell’intervento.

La maggior parte del denaro con cui lo Stato Islamico finanzia la sua macchina da guerra proviene dalla vendita del petrolio su cui le truppe di Al-Baghdadi hanno messo le mani in Siria e Iraq. Le esportazioni avvengono tutte attraverso il confine turco, così come l’afflusso di nuove reclute provenienti da tutto il mondo. In questo modo la Turchia, membro della NATO, sta palesemente aiutando il nemico giurato dell’Occidente. Il motivo di questa scelta è cinico: finché lo Stato Islamico combatte e indebolisce i curdi, con cui lo Stato di Ankara è storicamente ai ferri corti per le rivendicazioni di indipendenza, è meglio tenere il piede in due staffe lasciandoli fare il lavoro sporco e allo stesso tempo concedendo agli americani di utilizzare le basi turche per i raid contro i jihadisti.

L’Occidente però non è esente da colpe proprie. Militarmente parlando l’ISIS non è un nemico difficile da abbattere: a differenza di Al-Qaeda, che è un’organizzazione terroristica tradizionale, lo Stato Islamico non nasconde i suoi affiliati fra la popolazione civile ma utilizza un vero e proprio esercito che opera su larga scala. Ha un centro di comando, alcune basi operative e di addestramento e i suoi soldati viaggiano abitualmente alla luce del giorno su mezzi blindati facilmente identificabili. La conquista di Ramadi in Iraq, avvenuta qualche settimana fa, ci offre un chiaro esempio di come il Califfato sta guadagnando terreno: migliaia di camion trasportanti uomini armati hanno assaltato la città dalle vie d’accesso principali mettendo in fuga l’esercito iracheno dopo poche ore di combattimenti.

Un avversario del genere dovrebbe essere una formalità per gli eserciti occidentali meglio attrezzati e capaci di colpire gli obiettivi dall’alto. Purtroppo però l’azione della Coalizione Internazionale si è dimostrata inefficiente perché manca di un approccio sistemico. Due novità potrebbero migliorare l’intervento contro lo Stato Islamico ed entrambi non comportano l’utilizzo di truppe di terra, eventualità a cui gli Stati Uniti e l’Europa guardano con riluttanza.

La prima è l’integrazione dei vari servizi di Intelligence per creare un sistema in cui gli obiettivi vengono generati in tempo reale per essere colpiti. La seconda invece è smettere di chiedere il permesso di bombardare agli Stati interessati dai raid. La Siria, l’Iraq e la Libia sono ormai entità in decomposizione e in casi di emergenza come questo azioni unilaterali tempestive in spazi limitati migliorerebbero l’efficacia dell’intervento della Coalizione.

Identificare gli obiettivi e colpirli velocemente è l’unica strategia valida se non si vuole nemmeno contemplare l’idea di un intervento di terra. Resta sorprendente l’impotenza occidentale, sia nei confronti della Turchia che nei confronti dei nemici jihadisti stessi. Un’impotenza che rischia di portare lo Stato Islamico sempre più vicino all’Europa paventando l’ipotesi di una resa dei conti nei luoghi dove la cultura occidentale è nata e si è sviluppata.

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