L’ecosistema israeliano si conferma terreno fertile per le startup e per gli innovatori che adesso sono attratti anche da Gerusalemme.

“Per molti è un laboratorio a cielo aperto, per altri è semplicemente la start-up nation ma dietro a queste definizioni ci sono i risultati frutto di un sistema collaudato e vincente nato dal binomio pubblico-privato”

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Miro Scariot
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Hi-tech, Israele

L’ecosistema israeliano si conferma terreno fertile per le startup e per gli innovatori che adesso sono attratti anche da Gerusalemme.

“Per molti è un laboratorio a cielo aperto, per altri è semplicemente la start-up nation ma dietro a queste definizioni ci sono i risultati frutto di un sistema collaudato e vincente nato dal binomio pubblico-privato”

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La crescita di Israele e delle sue startup nonché della sua reputazione è frutto di una vera e propria pianificazione in cui lo stato ebraico ha deciso di intraprendere delle vere e proprie politiche di sostegno all’innovazione rivolte al settore privato. Questa volontà è evidente sin dal 1990 ovvero dall’inizio delle misurazioni, da parte dell’OCSE (Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico), che evidenziano la percentuale di PIL investita in attività di ricerca & sviluppo da parte di diversi stati. Già all’epoca Israele investiva il 2,2% del proprio PIL in R&S con un + 1% rispetto all’Italia, una forbice già rilevante che non ha fatto che ampliarsi con le ultime rilevazioni che mostrano come, ad oggi, l’Italia investa solo l’1,3% mentre il governo di Gerusalemme dedica addirittura il 4,25% del proprio PIL alle attività dedicate all’innovazione, primato conteso con la Corea del Sud. Queste percentuali sono il grande merito di una classe dirigente che riconosce nel cambiamento e nell’ innovazione dei fattori chiave per conservare competitività nel lungo periodo un sentimento preciso che rappresenta l’indiscussa costante dei governi israeliani. Qui di seguito vi racconterò gli ingredienti di questa ricetta di successo che ha permesso a 70 aziende israeliane di essere quotate al New York Stock Exchange tra cui numerose aziende tecnologiche quotate al NASDAQ.

La Gerusalemme che accelera
Città suggestiva, luogo millenario e dalla storia infinita; Gerusalemme sembra essere principalmente questo ma da qualche anno anche nella capitale si respira l’atmosfera visionaria di chi vuole reinterpretare il presente per scrivere il domani. Non è un caso se lo scorso anno la rivista Time ha definito Gerusalemme come uno degli hub di hi-tech in più rapida crescita al mondo; un riconoscimento notevole considerando che stiamo parlando di una città che, a differenza di Tel-Aviv, ha sofferto un alto tasso di disoccupazione. L’ambiente dell’hi-tech a Gerusalemme sta crescendo in modo esponenziale ed il numero di startup presenti nella capitale d’Israele è passato da 200 (2012) alle oltre 600 di oggi. Sono già passati 5 anni dalla nascita di “Made in Jerusalem” un incubatore che ha reso fertile il terreno per la nascita progetti e relazioni nel settore dell’high-tech e dell’informatica. Gli incubatori si stanno diffondendo sempre più, dei luoghi di progresso tecnologico ma anche sociale in quanto garantiscono la diffusione di un vero e proprio modo di lavorare basato sul networking ovvero sulla collaborazione e sul fare rete. L’esperienza di Gerusalemme deve essere un modello da prendere in considerazione anche in Italia, specialmente laddove le condizioni socio-economiche non sono particolarmente agevoli; ovviamente quanto appena raccontato non è frutto di un caso ma ha una ricetta chiarissima che credo sia utile raccontare.

Dietro al successo, lo Stato, qualche fallimento ed un modo di pensare
Qualche dato, il racconto della nascita degli incubatori a Gerusalemme… tutto interessante ( spero, altrimenti perché arrivare fino a qui …) ma a questo punto è giusto soddisfare il grande dubbio: ma come è stato possibile? Giusto qualche mese fa, per l’esattezza a giugno, il sito wired.it aveva pubblicato una bella quanto interessante intervista ad Ahron Ahron, il direttore dell’Autorità per l’Innovazione dello Stato d’Israele il quale ha spiegato il funzionamento del modello di cui si fa portatore. Il sistema israeliano è chiaro quanto efficace, lo Stato finanzia ciò che il privato propone ma attenzione, il ruolo centrale lo fanno gli incubatori che si occupano di selezionare i progetti più meritevoli al fine di generare un ambiente virtuoso in cui il denaro pubblico va a sostegno dei più meritevoli. In questo modo, il governo diviene creditore facendo anche da garante rispetto alla bontà del progetto verso altri finanziatori puntando ad ottenere il dividendo migliore per una nazione: occupazione e prosperità economica. Ovviamente essere innovatori significa correre in una terra inesplorata prendendosi anche dei rischi tra cui quello maggiore: il fallimento il quale falcia oltre la metà delle neonate start-up. A differenza della nostra logica incappare in un fallimento non diviene un fattore di discriminazione per l’imprenditore né per i suoi ex-dipendenti i quali, forti dell’esperienza appena conclusa, possono andare a rinforzare gli organici di altre start-up o di grosse multinazionali generando un circolo virtuoso proteso verso la crescita sociale e culturale degli individui. Il sistema Israeliano si dimostra quindi inclusivo e meritocratico nonché rispettoso del denaro pubblico che viene investito e recuperato laddove l’azienda beneficiaria abbia successo.

Israele beneficia del proprio patriottismo innovatore frutto dell’ingegno necessario al superamento delle insidie belliche ma anche della natura ostile, Israele è un paese che si autorigenera grazie al proprio intraprendente popolo sorretto da un grande spirito di squadra. Lo stesso che viene appreso durante gli anni di servizio militare e che poi viene dedicato alle attività civili nell’ambito della ricerca e dello sviluppo.

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