Gerusalemme e l’urbanista ideologo: in risposta a un articolo dell’Huffington Post

Niram Ferretti ed Emanuel Segre Amar analizzano per noi un recente articolo pubblicato sull'Huffington Post contenente tesi decisamente discutibili circa l'urbanizzazione di Gerusalemme

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Redazione
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Debunking, pregiudizio antisraeliano

Gerusalemme e l’urbanista ideologo: in risposta a un articolo dell’Huffington Post

Niram Ferretti ed Emanuel Segre Amar analizzano per noi un recente articolo pubblicato sull'Huffington Post contenente tesi decisamente discutibili circa l'urbanizzazione di Gerusalemme

Appare il 16 dicembre scorso sull’Huffpost un articolo a firma Giulia Berardelli dal titolo, “Cemento armato a Gerusalemme. Decenni di politica urbanistica aggressiva arma più efficace per Israele” in cui viene intervistato Francesco Chiodelli, professore associato di urbanistica presso il Gran Sasso Science Institute e autore di un libro in uscita presso Rutledge dal titolo “Shaping JerusalemSpatial PlanningPolitics and Conflict”. Nell’articolo, il cui titolo è già programmaticamente propagandistico con la ripetizione e associazione di “armare”, “arma”, “aggressività”inteso alla criminalizzazione di Israele, il docente, diligentemente assistito dall’articolista, provvede a fornirci il solito immarcescibile canovaccio del martirologio palestinese inserito artatamente nella cornice di una disamina urbanistica. 

Tutto fa brodo per potere raccontare l’epos della “colonizzazione” della Palestina da parte deli ebrei e dei soprusi, angherie, violenze, per non dire naturalmente, stermini, ai danni di quello che si presume un popolo innocente espropriato delle proprie terre, condannato alla marginalità e dunque costretto ad atti di violenza resistenziale nei confronti dell’”occupante”. 

No, Chiodelli non fa nessuna di queste affermazioni, non è peraltro necessario, ma è il sottotesto implicito che informa le sue asserzioni estremamente parziali e assai discutibili che esamineremo ora, progressivamente.  Cominceremo però da Giulia Berardelli, il cui campionario di inesattezze e falsità non può certo essere sottaciuto.

“La città è divisa in due dal 1949, quando l’armistizio di Rodi sancì che Israele si tenesse la parte Ovest della città – che ancora oggi è totalmente israeliana e ricorda molto una città “occidentale” – mentre la Giordania, che durante la guerra arabo-israeliana aveva occupato parte di Gerusalemme e dell’odierna Cisgiordania, mantenesse il controllo della parte Est della città, quella palestinese. Fra Est e Ovest fu tracciato un confine – la “Linea Verde” appunto – che durò fino al 1967, quando Israele conquistò, con la Guerra dei Sei Giorni, diversi territori tra cui Gerusalemme Est. Da allora la Gerusalemme reale ha continuato ad allontanarsi da quella ideale, desiderata dal mondo arabo e riconosciuta dalla comunità internazionale.”

Possono la Berardinelli e Chiodelli non sapere che la Green Line non è mai stata un confine, ma che era invece una linea di cessate il fuoco, venuta meno quando gli arabi, e nel caso specifico i giordani, ruppero la tregua nel ‘67 ed attaccarono Israele? E possono non sapere che la comunità internazionale non riconobbe mai la illegale occupazione giordana di Gerusalemme (e della Giudea e della Samaria) che durò dal 1949 al 1967? La comunità internazionale non riconobbe l’occupazione giordana, quanto alla “Gerusalemme ideale, desiderata dal mondo arabo”, era quella che vide tutte le sinagoghe distrutte, le antichissime tombe del Monte degli Ulivi utilizzate per costruire strade e perfino orinatoi, e gli ebrei cacciati dalle loro case (realtà quest’ultima ripetutasi in tutto il mondo arabo).

“Se la militarizzazione della Città Vecchia, abitata in maggioranza dagli arabi, è visibile a occhio nudo da qualsiasi turista o pellegrino, più complesse sono le conseguenze dell’occupazione israeliana sulla parte Est della città. Una prospettiva interessante da cui osservare la questione è quella dell’urbanistica, e in particolare delle politiche urbane messe in atto dalle autorità israeliane dal ’67 in poi”. 

La Città Vecchia non va confusa con Gerusalemme nella sua totalità, e nemmeno si deve nascondere che in essa, così come in Hebron, tanto par fare un solo esempio, gli ebrei che oggi vengono impropriamente chiamati “coloni”, nella realtà vi hanno abitato ininterrottamente per 3000 anni, esclusione fatta per il periodo dal 1949 e rispettivamente dal 1929 fino al 1967 a causa dell’antisemitismo arabo che il duo Belardelli/Chiodelli preferisce nascondere. A riprova di questa affermazione basta vedere che nell’articolo si legge “delle politiche urbane messe in atto dalle autorità israeliane dal ‘67 in poi”. Già, l’autrice preferisce tacere le vergogne della politica di re Hussein. Ma veniamo ora all-esperto di urbanistica Chiodelli.

“In cinque decenni – spiega – le autorità israeliane hanno costruito a Gerusalemme Est una serie di quartieri destinati esclusivamente alla popolazione ebraica, che oggi ospitano circa 200mila persone, vale a dire il 40% della popolazione ebraica della città. Si tratta in quasi tutti i casi di quartieri di ‘edilizia pubblica’, ossia costruiti direttamente dalle autorità israeliane o fortemente supportati da esse (per esempio tramite finanziamenti pubblici), che sono stati realizzati quasi sempre su terre espropriate a proprietari palestinesi. In questo modo, nel silenzio quasi completo della comunità internazionale, Israele ha messo in campo un formidabile processo in grado di trasformare un’aspirazione politica – quella dell’indivisibilità e dell’ebraicità di tutta la città – in un dato di fatto”.

Brilla come un gioiello incastonato la frase “terre espropriate ai palestinesi”, la quale genera immediatamente nel lettore sprovveduto l’idea che le terre siano state estorte ai legittimi proprietari. Chiodelli non specifica che le terre sono state espropriate secondo la legge di pubblica utilità del 1969 e che lo stato esercita come atto di sovranità per raggiungere un fine di vantaggio pubblico. Va inoltre detto che Gerusalemme Est, occupata abusivamente dalla Giordania dal 1948 al 1967, è giuridicamente priva di un detentore sovrano a cui sono riconducibili i terreni in essa presenti, dunque affermare che essi siano di “proprietari palestinesi” è affermazione priva di qualsiasi legittimità giuridica. Per quanto riguarda la programmatica di “ebraizzazione” di Gerusalemme e la sua “de-arabizzazione”, parole di indubbio affatturamento porose all’ideologia, va rilevato che a Gerusalemme, se facciamo riferimento ai dati dal 1806 al 1967, anno in cui Israele conquistò Gerusalemme Est a seguito della Guerra dei Sei Giorni, c’è stata una costante oscillazione tra la maggioranza ebraica e musulmana all’interno delle mura della città fino al 1838.

Dal 1806 al 1832 la presenza araba nella città è stata maggioritaria, con una predominanza musulmana nel 1817, 3,000-4,000 ebrei contro 13,000 arabi, e nel 1832, 4,000 ebrei contro 13,000 arabi. Mentre nel periodo che va dal 1838 al 1876, vi fu una maggioranza relativa ebraica che diventò predominante nel periodo che va dal 1882 al 1905 con picchi nel 1885 di 15,000 ebrei contro 6,000 arabi, e nel 1896 di 28, 122 ebrei contro 8,556 arabi. 

Nel 1922 la predominanza ebraica a Gerusalemme era considerevole, con 33,971 ebrei contro 13,413 musulmani, schiacciante nel 1931 con 51,200 ebrei contro 19,900 musulmani. Nel 1967, quando Israele conquistò alla Giordania, Gerusalemme Est, la presenza ebraica era considerevolmente maggiore rispetto a quella attuale, 195,700 ebrei contro 54,963 musulmani. I dati del 2016 ci riportano una presenza ebraica assai inferiore rispetto a quella di allora con 524,700 ebrei contro 307,300 musulmani. Dunque, se si tratta di usare categorie come “ebraicizzazione” e “de-arabizzazione”, bisogna dire che essa, ad oggi, rispetto a specifici periodi del passato, è percentualmente diminuita. 

Chiodelli altresì omette che la tradizione porta gli arabi a distribuirsi nelle loro città divisi per tribù; se vale tra di loro, a maggior ragione questa tradizione vale, nella maggior parte dei casi, anche nei rapporti con gli ebrei. Ciò nondimeno appare fuori luogo scrivere che i nuovi quartieri che sorgono a Gerusalemme est sono “destinati esclusivamente alla popolazione ebraica”; in Israele esistono leggi democratiche ben precise, a differenza di quanto avviene in tutti i territori arabi, e, se nei territori è gravissimo reato vendere una casa ad un ebreo, a Gerusalemme un arabo può scegliere di abitare dove preferisce. 

“Da un lato la “ebraizzazione” di Gerusalemme, dunque, dall’altro la sua “de-arabizzazione”, secondo un duplice processo già descritto da Oren Yiftachel, professore israeliano di geografia politica all’Università Ben Gurion del Negev. All’indomani della conquista militare del ’67, la priorità delle autorità israeliane divenne la materializzazione di quella conquista. Ebbe così inizio una azione a bassa intensità, fatta a colpi di interventi urbani, il cui scopo fondamentale era materializzare la conquista di Gerusalemme Est. L’imperativo, soprattutto negli anni ’70 e ’80, era costruire il più velocemente possibile, occupare con il cemento israeliano le terre che via via venivano espropriate ai palestinesi”.

Come si sia riusciti a conquistare Gerusalemme Est con percentuali decrescenti di ebrei residenti rispetto ai musulmani, anche se i primi, attualmente in maggioranza, resta un mistero, ma è di sicuro effetto suggestivo affermarlo, soprattutto con frasi costruite con mattoncini ideologici ben compatti, come l’ultima del paragrafo in oggetto, in cui l’esproprio è suggestivamente legato al “cemento israeliano”.

“La demolizione di una casa palestinese, la costruzione di un condominio per famiglie ebraiche, l’esproprio di un terreno arabo, la realizzazione di una tramvia che collega est e ovest della città, la negazione di un permesso di edificazione a una famiglia palestinese…”. Sono questi i piccoli passi che, ripetuti per 50 anni, hanno allontanato la Gerusalemme reale da quella ideale, a cui sono rimasti ancorati sia i palestinesi che la comunità internazionale. Il punto – spiega Chiodelli – è che tutti questi interventi di politica urbana hanno “cancellato la divisione fisica tra Gerusalemme Ovest, la città ebraica, e Gerusalemme Est, la città araba”. Con il risultato che la famosa “Linea Verde” che sulla carta dovrebbe dividere le due città (e che è il confine ufficialmente riconosciuto come legittimo dalla comunità internazionale) semplicemente non esiste più”

Peccato che la “divisione fisica” di cui parla Chiodelli è un puro costrutto venuto in essere nel 1948, quando Gerusalemme, una sola e indivisa, se non spazialmente come può esserlo qualsiasi altra città al mondo, venne occupata abusivamente nella sua parte orientale dalla Giordania. La divisione tra città ebraica e città araba è, infatti una conseguenza di questa azione unilaterale giordana che di fatto spaccò di imperio la città in due segmenti separati arabizzando interamente senza alcun problema i quartieri ebraici della città, ed espropriando senza alcun indennizzo gli ebrei del Muro Occidentale, il luogo più santo della loro religione e del loro quartiere. Di nuovo, e va ripetuto senza sosta, la linea verde del 1949 non rappresenta alcun confine riconosciuto, ma rappresenta unicamente una linea armistiziale. Come ha scritto chiaramente Daniel Laufer: “La linea verde indica solo dove si erano fermate le forze israeliane e quelle giordane ed egiziane, le une di fronte alle altre, quando le parti cessarono di combattere a seguito di quello che sarebbe diventato l’ultimo cessate il fuoco della guerra arabo-israeliana del 1948-49. Non vi è nulla di più né di meno israeliano o palestinese, nulla di più né di meno ebraico o arabo al di qua e al di là di quella linea. Anzi, a ben vedere l’unica vera differenza era che, alla fine dei combattimenti, sul versante israeliano della linea c’erano sia ebrei che arabi, mentre sul versante controllato dagli arabi (dai giordani e dagli egiziani) di ebrei non ne rimaneva più neanche uno”.

“Lo sviluppo dei quartieri ebraici a Gerusalemme Est ha fatto nascere una rete urbana fatta di servizi e infrastrutture a uso esclusivo della popolazione ebraica. “Ormai a Est vivono stabilmente 200mila israeliani… l’idea di spostarli per tornare al confine 1967 è semplicemente impensabile il che rende Gerusalemme di fatto indivisibile”, argomenta il ricercatore”.

Quando si presenta una realtà immaginaria non sempre si riesce ad essere coerenti:  infatti “la realizzazione di una tramvia che collega est ed ovest della città” viene presentata tra le colpe della amministrazione ebraica, ma tale affermazione fa a pugni con quanto si legge subito dopo: “servizi e infrastrutture a uso esclusivo della popolazione ebraica”, ed ancora: “quartieri palestinesi veri e propri ghetti privi dei servizi pubblici necessari”. Insomma, qualcosa non torna. Se poi mancano davvero i servizi pubblici necessari, la vita degli abitanti ne subirebbe inevitabili danni, ma ciò appare in contrasto con le recenti statistiche che vogliono gli arabi palestinesi i più longevi tra tutte le popolazioni arabe. Per quanto riguarda i 200 mila israeliani per quale motivo, bisognerebbe spostarli? Non ci aveva già pensato la Giordania a farlo nel 1948, estromettendo completamente gli ebrei dalla parte occidentale della città? Chiodelli, di fatto propone di arabizzare o giordanizzare di nuovo Gerusalemme Est e di riportare gli ebrei alle linee indifendibili del 1967. Cosa dovrebbe avvenire del Muro Occidentale non ci viene spiegato.

“A essere estranei alla città, ormai, sono i quartieri palestinesi, ridotti a enclave terribilmente povere e degradate. I quartieri palestinesi – afferma Chiodelli – “sono diventati dei veri e propri ghetti, poveri, sovraffollati e privi dei servizi pubblici necessari: sono ormai isole aliene all’interno del mare della città israeliana”.

La rappresentazione dei quartieri palestinesi di Gerusalemme come favelas è di indubbio impatto letterario. Suscita la dovuta e sentita indignazione per gli “umiliati e offesi” a fronte degli “oppressori” israeliani. Mentre è sicuramente indubbio che i quartieri palestinesi sono meno prosperi di quelli israeliani, più fatiscenti e degradati, non si tratta della conseguenza della cattiveria israeliana, ma di fattori sostanzialmente strutturali della società palestinese in generale, di fatto incapace nel corso degli ultimi settanta anni di essersi sviluppata al passo di quella israeliana. Ma sì sa, la colpa della povertà e del degrado altrui non è mai propria è sempre causata dacoloro i quali non hanno saputo fare meglio. 

Chiodelli dovrebbe chiedersi come mai Gaza, Ramallah, Hebron, ecc. non abbiano saputo negli ultimi decenni malgrado gli enormi aiuti economici pervenuti dall’Occidente, Stati Uniti in testa, dare vita a un livello di sviluppo che poteva portarli a un salto di qualità effettivo. Forse dovrebbe chiederselo relativamente al mondo arabo in toto e al suo generale stato congenito di arretratezza strutturale determinato in primis dalla classe politica da cui è stato ed è dominato, e della propri modelli culturali e socio economici. Ma tutto ciò, per la vulgata progressista e liberal è anatema. La colpa dell’arretratezza del Terzo Mondo è sempre e solo causata dalle colpe occidentali. 

“Nel 2000, cioè a partire dall’inizio della seconda “intifada”, Israele ha iniziato a costruire dei lunghi tratti di recinzione a difesa delle proprie colonie, cioè degli insediamenti costruiti da israeliani in Cisgiordania e nella periferia di Gerusalemme a partire dalla fine del conflitto del 1948 fino ai giorni nostri. Il lavoro di bisturi delle autorità israeliane su Gerusalemme è visibile anche seguendo il profilo del muro israeliano. “Osservandolo dall’alto – spiega Chiodelli – si vede che Gerusalemme Est è l’unico punto in cui la barriera israeliana corre a volte all’interno dei quartieri arabi, tagliando fuori circa il 15% della popolazione palestinese. Fuori dalla città, il muro si snoda in un’operazione che sembra tagliata col bisturi: la barriera è cucita attorno agli agglomerati ebraici e taglia fuori ciò che è palestinese”.

Peccato che non venga assolutamente spiegato che i tratti di recinzione a difesa degli insediamenti israeliani sia stato ed è una necessità non dovuta a una volontà segregazionista, ma a una precisa necessità funzionale strategica e di sicurezza. Come ha spiegato il generale Yossi Kuperwasser in una intervista concessa al Giulio Meotti, (Giulio Meotti, “I grandi ebrei illegali”, Il Foglio, 23 gennaio 2017), “Ogni insediamento ha oggi un valore di sicurezza e fa parte del sistema di controllo dei Territori. Le colonie sono tutte strategiche, controllano zone importanti in cui è nato il terrorismo. Poi ci sono colonie che hanno un super valore di sicurezza, come quelle attorno a Gerusalemme. Le linee del 1967 non sono difendibili e Israele ha bisogno che le colonie siano incluse in un futuro accordo con i palestinesi, come quelle nella Valle del Giordano”. 

La barriera, ha ragione Chiodelli, “è cucita attorno agli agglomerati ebraici e taglia fuori ciò che è palestinese”. Il suo scopo infatti è esattamente questo. Separare e distinguere anche in vista di una futura ripartizione. A meno che Chiodelli non suggerisca che non debba esserci nessuna separazione ma una confluenza tra settori ebraici e settori palestinesi, oppure, ancora meglio, un completo abbandono della zona da parte degli israeliani ivi residenti, perché fondamentalmente è questo l’assunto ideologico sottostante al suo discorso. Peccato che gli Accordi di Oslo del 1993-1995 stabiliscano una ripartizione netta delle aree con rigorosa proibizione di accesso agli israeliani nell’Area A sotto completo controllo palestinese e rigorosamente judenrein

“Il discorso sulle politiche urbane e territoriali è legato a doppio filo a quello della demografia. Negli ultimi anni la popolazione araba è cresciuta di più di quella ebraica, e questo dato preoccupa le autorità israeliane: nel ’67 gli ebrei erano il 74%, gli arabi il 26%; oggi gli arabi sono il 37%, gli ebrei il 63%. ‘Lo spauracchio ebraico – afferma Chiodelli – è che la popolazione araba superi quella ebraica. Nei documenti urbanistici questa preoccupazione è messa nero su bianco: si parla proprio di ‘mantenimento dell’equilibrio demografico’. L’urbanistica è un elemento di controllo politico della demografia: se non hai una casa, è più difficile mettere su famiglia; se hai a disposizione molte case a un costo contenuto, è tutto più facile’”.

I dati demografici più aggiornati smentiscono ciò che afferma Chiodelli, come rileva Andrew Tobin sul Jerusalem Post del 20 maggio 2017  (Israel’s demographic futurecrowded and very religious), “Una volta eccezionalmente fertili le donne arabe-israeliane hanno oggi una media di 3,13 figli, la stessa dei cittadini ebrei. Secondo il rapporto del Central Bureau of Statistica, nel 2059 gli arabi costituiranno il 20% della popolazione israeliana, paragonato al corrente 21%”. Ma l’impianto ideologico del discorso di Chiodelli deve per forza stabilire assunti rigidi e inamovibili come in tutti i discorsi funzionali a una lettura fortemente partigiana e pregiudiziale nella quale anche l’urbanistica diventa un tassello funzionale alla propria narrativa nella quale i palestinesi devono apparire vittimizzati e minoranza soggiogata.

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Niram Ferretti

Emanuel Segre Amar

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