I Fratelli Musulmani e il ritorno del jihad

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Niram Ferretti
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Terrorismo

I Fratelli Musulmani e il ritorno del jihad

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Come mai i Fratelli Musulmani, che qui in Italia godono delle amorevoli attenzioni di Hamza Roberto Piccardo e di suo figlio Davide, sono considerati anatema in Egitto (dove sono sorti), negli Emirati Arabi (con l’eccezione dell’attualmente isolato Qatar), e in Arabia Saudita? Per capirlo è utile ripercorrerne la storia, soprattutto mettendola in rapporto alla nascita dello Stato di Israele, al quale, il gruppo radicale musulmano, nutrito da un profondo antisemitismo, si oppose fin da subito. Vediamola per scampoli.

L’Egitto, Israele e il radicalismo musulmano
Nel 1922, cinque anni dopo la dichiarazione Balfour, Ahmed Zaki, un ex ministro del governo egiziano dichiarò apertamente il proprio sostegno al sionismo, in cui vedeva una grande occasione per una rigenerazione del Medioriente. Era stato preceduto da Ziwar Pasha, primo ministro egiziano, il quale, nel 1917, anno in cui la dichiarazione venne formulata, l’aveva appoggiata. Nel 1925, il Ministro dell’Interno, Ismail Sidqui aveva dato disposizioni di intervenire contro un gruppo di palestinesi i quali si erano riuniti in una azione di protesta antisionista.

L’attitudine del governo egiziano, all’epoca, era dunque sostanzialmente favorevole al sorgere in Palestina di uno Stato ebraico. Tuttavia, nel 1945, al Cairo, avvenivano i primi pogrom. Cosa era accaduto nel frattempo? Bisogna riavvolgere il nastro per comprendere cosa determinò la svolta che avrebbe radicalmente modificato l’atteggiamento arabo nei confronti dell’immigrazione ebraica in Palestina trasformando gli ebrei da risorsa in nemici giurati.

Riavvolgendolo si arriva alla causa scatenante di questo radicale mutamento di opinione, la fondazione al Cairo, nel 1928, dei Fratelli Musulmani, il principale movimento fondamentalista musulmano del ventesimo secolo.
Non è possibile comprendere adeguatamente il jihadismo contemporaneo se non si conosce la ragione d’essere di questo movimento. Come ha scritto il politologo tedesco Matthias Küntzel,

“Per il movimento islamista globale odierno i Fratelli Musulmani sono l’equivalente di quello che i bolscevichi furono per il movimento comunista del 1920: il punto di riferimento ideologico e il centro organizzativo che ispirò tutte le tendenze successive e che continua a farlo ai giorni nostri”.

Il fondatore della fratellanza, Hassan al Banna, si considerava riformista e rivoluzionario e lo fu certamente, in puro spirito salafita, esattamente come si considera rivoluzionario e riformista Abu Bakr al-Baghdadi, Califfo dello Stato Islamico dell’Iraq e del Levante. Tra i due le affinità sono notevoli, si direbbero, sotto molti aspetti, gemelli separati dal tempo, e in realtà lo sono, uniti anche da un tempo “contestualizzato” eternizzatosi nel VII secolo, quando l’Islam era ancora “puro”. Per i riformisti religiosi della schiatta di Hassan al Banna, il tempo presente rappresenta infatti solo un allontanamento dalla verità perfetta che deve essere recuperata nella sua purezza incontaminata. E’ sempre all’origine che bisogna tornare poiché tutto ciò che da essa si discosta è degenerazione, o meglio, apostasia, tradimento dell’insegnamento sorgivo contaminatosi poi in seguito.

Insieme all’altro grande teorico dei Fratelli Musulmani, Sayyid Qutb, Hassan al Banna riteneva che solo un ritorno alla lettera coranica più rigorosa, sine glossa, poteva riscattare l’Islam dalla sua decadenza, dalla pericolosa influenza delle idee occidentali che vi erano penetrate. Nello stesso periodo, infatti, in Iran, Reza Shah era intento alla secolarizzazione del paese mentre in Turchia, Mustafa Kemel, Ataturk, aveva abolito la poligamia, dichiarato la parità tra uomo e donna, opponendosi all’uso del hijab. Per al Banna, disfunzioni da correggere, esempi di satanizzazione occidentale.

Hassan al Banna e Sayyid Qutb, consideravano l’Occidente come il regno della jahiliyya, della più profonda e imperdonabile ignoranza riguardo alla verità ultima contenuta nel Corano. Come operare sul piano politico per depurare l’Egitto dalla contaminazione secolare, dalla peste occidentale? Semplice. Dissolvendo tutti i partiti, abolendo la democrazia parlamentare e costituendo uno stato islamico incardinato sulla sharia e il Califfato. Ma non è questa forse la piattaforma dell’ISIS? Certamente. L’humus salafita fertilizza un unico terreno sul quale poi crescono correnti individuali, ognuna con la sua specificità e la pretesa di essere migliori delle altre.

Al Banna si era scoperto “riformista” assai presto. Già a tredici anni aveva fondato la “Società per la Prevenzione del Proibito”. Il piccolo talebano innamorato della Virtù (come il suo predecessore laico Maximilan de Robespierre) da adulto sarebbe diventato il capo di un movimento di salute pubblica il cui obbiettivo poi messo in pratica, era la distruzione delle sedi della contaminazione libertina, quindi night clubs, bordelli, cinema, tutte emanazioni occidentali e in particolare della tentacolare “amoralità” ebraica.
Jihadismo e antisionismo, la questione palestinese
Nel 1936 i Fratelli Musulmani erano ancora una piccola realtà, contando appena 800 adepti (solo due anni dopo, gli affiliati sarebbero stati 20,000 per arrivare poi a 500,00 nel 1948), tuttavia, malgrado il numero ridotto erano molto attivi. Sotto impulso del Mufti di Gerusalemme, Amin al Husseini, uomo di fiducia di Hitler in Medioriente, l’organizzazione di Hassan al Banna convocò il primo boicottaggio nei confronti delle attività ebraiche in Egitto. Nelle moschee, nelle scuole e nei posti di lavoro iniziò a essere propagata una menzogna mantenuta in vita ancora ai nostri giorni, gli ebrei volevano distruggere la moschea di Al Aqsa, terzo luogo santo dell’Islam. Fu una chiamata alle armi.

Nel frattempo infatti, la questione palestinese era entrata in gioco prepotentemente. Il movimento islamico egiziano si era alleato con Amin al Husseini nel nome di una guerra santa nella quale gli ebrei erano stati trasformati nei nemici da distruggere. Gli inglesi venivano considerati nemici secondari, una mera foglia di fico per il vero obbiettivo che andava conseguito, la liberazione della Palestina dalla presenza ebraica. Come farlo? Attraverso il jihad.

Fu infatti Hassan al Banna colui il quale, negli anni ’30, riqualificò il jihad offensivo al centro dell’insegnamento islamico. Prima della fondazione dei Fratelli Musulmani il jihad offensivo non aveva più un ruolo così predominante.

Sotto l’egida del gruppo egiziano il jihadismo andò saldandosi con l’antisemitismo più virulento e con l’obbiettivo religioso di una guerra di sterminio. La guerra contro gli ebrei venne combattuta su due fronti. In Occidente era il Reich ad occuparsene con geometrica potenza, in Medioriente l’operatività venne lasciata nelle mani dei Fratelli Musulmani e di Amin al Husseini. Solerti propugnatori della vulgata nazista, i Fratelli Musulmani si preoccuparono di introdurre nel mondo arabo le versioni tradotte dei Savi dei Protocolli e del Mein Kampf. Furono sempre loro a edificare il culto fanatico della morte estetizzata da preferire di gran lunga alla vita. Nel 1937 Hassan al Banna scrisse un articolo dal titolo “L’industria della Morte” poi ripubblicato nel 1946 come, “L’arte della Morte”, in cui esponeva il suo credo con queste parole:

“A una nazione che perfeziona l’industria della morte e che sa come morire nobilmente, in questo mondo Dio concede una vita onorevole e la grazia eterna in quella futura”.

La bella morte agognata dalle “truppe di Dio” (altro nome dei Fratelli Musulmani) venne esaltata anche nei cori dei militanti marcianti per le strade del Cairo, “Non abbiamo paura della morte, la desideriamo!”. Questo culto del martirio, l’esaltazione della morte e il disprezzo della vita propagandati dalla fratellanza verranno ereditati poi da Hamas, la costola palestinese del gruppo, e messi in pratica in modo esponenziale durante la Seconda Intifada.

Tout se tient nella dottrina dei Fratelli Musulmani, rigorismo salafita, antisemitismo, jihadismo e sullo sfondo lo scenario del Califfato come modello insuperabile di perfezione da raggiungere.

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