Il Culto della Morte

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Niram Ferretti
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Terrorismo

Il Culto della Morte

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“Allah è il nostro obiettivo, il Profeta il nostro modello, il Corano la nostra costituzione, la Jihad la nostra strada, e la morte per Allah il più sublime dei nostri desideri”

Così è scritto nel manifesto fondante dei Fratelli Musulmani.

Nel 1937, in un articolo, prima intitolato “L’industria della morte” e in una ripubblicazione successiva “L’arte della morte” Hassan al-Banna, il fondatore del movimento islamico egiziano, avrebbe esplicitato il suo concetto di jihad. Per al-Banna ciò che aveva fiaccato i musulmani allontanandoli dal virtuoso sentiero della verità coranica era stato l’amore per la vita, i suoi piaceri e l’odio per la morte. Questa prospettiva andava invertita. La morte avrebbe dovuto essere un obbiettivo e trasformarsi in una vera e propria arte. “Dunque”, scriveva “Preparatevi a un grande compito. Siate disposti a morire e la vita vi sarà garantita, operate per una nobile morte e otterrete una completa felicità”.

La canzone cantata dai Fratelli Musulmani mentre marciavano per le strade del Cairo conteneva queste parole,

“Non abbiamo paura della morte ma la desideriamo…Come è straordinaria la morte…Moriamo per i musulmani”

a cui faceva seguito il coro,

“La jihad è la nostra via…e la morte per la causa di Dio il nostro più prezioso desiderio”.

Il culto della morte, la sua mistica nera, sono un elemento essenziale per comprendere ciò che motiva il terrorismo islamico. Esso rappresenta un elemento culturale che si è sviluppato in modo endogeno all’interno dell’Islam, nasce da un interpretazione del Corano e nel testo fonda la propria totale legittimità.

Hassan al-Banna conosceva il Corano a fondo, così come lo conosce assai bene Abu Bakr al-Baghdadi. Si può sostenere che la loro interpretazione sia una deriva, ma quello che non si può fare è affermare che la visione che propongono non nasca dentro all’Islam e non sia di natura religiosa. Ciò non solo è ridicolo ma grottesco.

Hasan al-Banna ieri, Abu Bakr al-Baghdadi oggi, gruppi come Hamas, Hezbollah, Al Quada, Boko Harem, Ansar Dine e altri, hanno alle spalle almeno un secolo di predicazione rigorista sia in campo sciita che in campo sunnita e sono ancorati nella loro visione al Corano e alle gesta di Maometto che per ogni musulmano pio rappresenta il modello perfetto da emulare.

L’idea del Califfato, del ripristino delle glorie passate non è un delirio estemporaneo nato in seno all’ISIS ma ha una lunga gestazione e legittimazione, fa parte del programma di coloro che si interpretano come riformisti e la cui istanza principale è il risveglio islamico, un ritorno alle origini pure dell’Islam e a un interpretazione del Corano sine glossa. E’ quindi del tutto fuorviante e privo di qualsiasi fondamento storico presentare il terrorismo islamico jihadista la cui ultima sigla è quella dell’ISIS, come il prodotto di cause esterne all’Islam e indotto se non prodotto direttamente dall’Occidente.

La serie di attentati jihadisti che hanno colpito negli ultimi anni l’Ooccidente, da Madrid, Londra, Bruxelles, Berlino, e gli episodi di violenza terrorista che interessano Israele, in cui i perpetratori uccidono nella consapevolezza che essi stessi saranno con ogni probabilità uccisi, si iscrivono tutti dentro lo stesso humus islamista che glorifica la morte e ha un unico solo nemico, l’Occidente, il suo stile di vita e i suoi valori, in contrasto con quelli coranicamente statuiti.

Israele, è fin dal suo sorgere dentro questa prospettiva di violenza di matrice religiosa esercitata nei suoi confronti, in cui l’aspetto politico è solo la diretta conseguenza ma non la causa principale, la foglia di fico, che nasconde la ragione più profonda che anima gli odiatori della vita, i santificatori della morte. Il rifiuto dell’esistenza, in una terra considerata interamente appartenente all’Umma islamica, di uno Stato ebraico, essendo gli ebrei nella prospettiva suprematista dell’islamismo militante, unicamente tollerabili come dhimmi, cittadini sottomessi alla superiorità musulmana.

Non è certo un caso che nel 1945 i Fratelli Musulmani aprirono la loro prima filiale palestinese a Gerusalemme. Hassan al-Banna scelse la Palestina come un luogo decisivo per fomentare il jihad, trasformandolo in un dovere che ogni devoto musulmano avrebbe dovuto ottemperare. La moschea di Al Aqsa, dopo la Mecca e Medina, il terzo sito più santo per l’Islam, gli offriva il prerequisito necessario. La stessa moschea che Abu Mazen, in un discorso incendiario tenuto il 16 settembre del 2015, dichiarò veniva dissacrata dalla presenza ebraica, invocando per la sua purificazione il sangue dei šuhadāʾ i martiri.

All’interno di questa prospettiva, in cui la morte è un bene, una elargizione fatta ad Allah per distruggere i suoi nemici, si iscrive la violenza di matrice islamica di cui da decenni siamo testimoni. Si tratta di un’unico jihad con declinazioni diverse e diverse ramificazioni che può essere affrontato solo nella più lucida consapevolezza di quali sono le sue fonti.

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