D’Alema e la sua ossessione per Israele

Victor Skanderbeg Romano
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D’Alema e la sua ossessione per Israele

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Victor Skanderbeg Romano
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Massimo D'Alema
Capita a tutti, in un momento della propria vita, di essere ossessionati da qualcosa. Ad altri capita di esserlo in ogni momento. D’Alema ha sviluppato la sua ossessione verso Arafat, visto come un gentile padre adottivo con le kefiah, e verso Netanyahu (e Israele), considerato invece fucina di tutti i mali del mondo. Anche pochi giorni fa, appena rientrato da un viaggio in Israele dove ha incontrato, perlopiù, membri del partito più corrotto della Terra, Fatah, D’Alema non ha resistito. Una settimana senza sbandierare il suo odio verso Israele e il suo governo lo stava facendo precipitare in un abisso di disperazione. Si narra addirittura che, novello Augusto, si aggirasse per il ponte della sua barca a vela urlando “Netanyahu, rendimi i calzoni”, riferendosi al paio di braghe di fustagno perse in una scommessa con il premier israeliano.

Una breve premessa, questa, per arrivare alle sue più recenti dichiarazioni. L’ex Presidente del Consiglio ha infatti detto che il tramite fra lui e Craxi, quando quest’ultimo si trovava già nel suo esilio dorato in Tunisia «Era Yasser Arafat. Quando Craxi stava per morire, io, che ero premier, tentai una trattativa umanitaria con la Procura di Milano per farlo tornare a curarsi in Italia. Non ci riuscii. Vedete, molti sostengono che Renzi sia simile a Craxi. Forse nel piglio del potere, nel modo di gestire l’autorità… Ma Craxi era di sinistra, Renzi non lo è. Craxi frequentava Arafat, Renzi frequenta Netanyahu.»

Con l’ultima affermazione, D’Alema traccia una pericolosa linea di incontro fra uomini di sinistra e quello che era il terrorismo palestinese degli scorsi decenni. A qualsiasi altro membro del PD un’affermazione così sciocca sarebbe costata un’immediata rettifica, ma D’Alema, ormai sembra chiaro, va a briglia sciolta, e ho il forte sospetto che molti del PD lo considerino alla stregua di quegli anziani che troviamo a sorvegliare i cantieri e a insegnare a chi ne sa più di loro come si fa a costruire una strada.

Arafat era di sinistra, ma anche lui per mero opportunismo politico (forse per questo D’Alema ne tesse le lodi a ogni piè sospinto). Fino al diktat sovietico di fine anni cinquanta infatti, tutti i movimenti espressione degli arabi di Palestina puntavano al supporto degli americani, specie attraverso l’Arab Information Centre (AIC), di cui abbiamo parlato in un apposito articolo.
Nelle prime pubblicazioni di questa associazione, completamente finanziata dalla moneta araba, si leggevano dure reprimende del comunismo e si sottolineava addirittura come questo fosse vietato in tutti i paesi arabi ad eccezione di Israele.

Insomma, i futuri comunisti arabi parlavano male del comunismo, descrivendolo come una realtà israeliana, per fare breccia nei cuori americani, congelati dalla guerra fredda.
Il giovane D’Alema, appena inserito negli organi del PCI grazie al padre Giuseppe, gappista e senatore proprio del PCI per diverse legislature, abbracciò subito gli ideali anticapitalisti e antimperialisti fabbricati in fretta e furia da Arafat & soci a partire dal 1959.

L’aspetto preoccupante è che la sua beautiful obsession per il terrorismo palestinese e l’islamismo sta peggiorando con il tempo. Non si tratta, ovviamente, di una direzione dettata dal cuore, ma da un preciso calcolo politico. I continui rapporti con l’Islam politico lasciano infatti presupporre una netta scelta di campo. Non è raro vederlo impegnato a supportare Tariq Ramadan, nipote di Al-Banna (il fondatore del movimento islamista Fratelli Musulmani) e parlare di “islam europeo” anche attraverso la sua Fondazione Italianieuropei, lautamente finanziata dall’UE.

D’altronde l’unica vera qualità, se vogliamo definirla tale, del baffetto nazionale, è sempre stata questa: opportunismo, opportunismo, sempre fortissimamente opportunismo.

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